venerdì 24 maggio 2013

Fast and Furious 6 [Recensione]




Lo dico senza pudore: Fast and Furious è la più bella saga action contemporanea.

Messo da parte lo stile alla Roberto Cavalli versione "auto", con modifiche colorate, minigonne, alettoni e quanto di più osceno possa essere fatto ad un auto - che sia ben chiaro: mi riferisco al messaggio filtrato per il pubblico medio e cioè "colora la tua macchina che le fighe ti andranno dietro" -, F&F cambia direzione e diventa un action - crime movie: un sottogenere che si concentra maggiormente sulle truffe, le gang e il terrorismo.
L'intuizione si rivela vincente perchè la saga acquista maggior serietà, non rinunciando agli aspetti comici, e dimostra come si possano fare bei film senza impegnare eccessivamente la trama.  

Nel sesto capitolo Toretto (Vin Diesel) è contattato nuovamente da Hobbs (Dwayne Johnson) per riformare il team e catturare un pericoloso criminale di nome Owen Shaw (Luke Evans). Ma c'è una sorpresa - non per chi ha visto il finale del quinto -: Letty (Michelle Rodriguez) è viva e lavora per i cattivi.

Ci siamo.
Allacciate le cinture.
E via.

Il sesto capitolo conferma due importanti punti: la regia e il carisma.
Sono le componenti esclusive che permettono alla pellicola di decollare.
Girato molto bene con scene d'azione tra le più belle di sempre e giocato sul carisma di due colossi come il buon Vin e l'ingombrante ex The Rock, è un costante climax di esplosioni, pugni e voli d'angelo.
Ma a differenza del quinto, stavolta, la sceneggiatura è al di sotto; salvo solo nell'ultima parte.
Justin Lin si riconferma una vera e propria promessa di questo genere e segna anche una maturità diversa rispetto il precedente capitolo.
Fautore della svolta della saga, con Tokyo Drift e i restanti, Lin regala scena dopo scena palpitazione allo spettatore, che giunge al punto di battere le mani e gioire per alcuni colpi di scena o per l'arrivo del buono di turno: è una specie di transfert.
I protagonisti sono perfetti per le parti: la durezza di Diesel e il granitico Dwaine fianco a fianco ti fanno sentire protetto e a sognare che i super eroi non sono soltanto nei fumetti; sono più maschi e gonfiati di steroidi.
Belle le ambientazioni e gli inseguimenti; Londra e Mosca funzionano come scenario e la scelta di costruire veri e propri set in mattone regalano uno spettacolo più autentico.
Inferiore al quinto ma superiore ai restanti è un titolo da non lasciarsi sfuggire per chi ama il cinema esplosivo.

Nel finale, poi, c'è quel colpo di scena che non t'aspetti e che ti fa prendere il calendario e contare i giorni fino al prossimo capitolo.
Che soffrirà per alcune assenze importanti.
Ma che saranno colmate, a quanto pare, da un grande personaggio.

Adrenalina eh?!

marcodemitri®

mercoledì 22 maggio 2013

Il Grande Gatsby [Recensione]



Come ho scritto in altri sedi: i pregiudizi rovinano l'atmosfera di qualsiasi opera.
E così, io che non ho mai visto di buon occhio il cinema di Baz Lurhmann perchè troppo superficiale nelle sue, belle, rese scenografiche, ho dovuto ricredermi per questo titolo sottovalutato a Cannes.

Vi spiego perchè.
Il Grande Gatsby, l'opera letteraria è un capolavoro.
Un romanzo moderno potente, accattivante e feroce.
Una resa perfetta degli anni pre crisi del '29, scritto da Fitzgerald con stile e con una magnifica presa di coscienza dell'arrivismo di molti riccastri, chiusi in roccaforti strabilianti ma dalla sensibilità inesistente.
Uno scritto, tra l'altro, semplice e complesso, veloce e lento; che ad un'attualizzazione si presta facilmente, per nulla anacronistico.

Di trasposizione ce ne sono già state: ben quattro.
La prima degli anni 20, muta e a quanto pare andata perduta.
La più importante, invece, fu quella diretta da Jack Clayton, sceneggiato da Francis Ford Coppola e interpretato divinamente da Robert Redford - sono gli anni del suo massimo splendore - e Mia Farrow.
Una raffinatezza che difficilmente sarebbe stata eguagliabile.
Eppure Lurhmann in qualche modo c'è riuscito.

Alla luce dunque di alcuni presupposti che non mi facevano ben sperare, ho dovuto ricredermi.

Baz Luhrmann, dopo una serie di travagliati progetti, riscritture, problemi di produzione - era il suo tarlo quello dirigere il film -, c'è riuscito.
E per farlo, ovviamente, ha pensato bene di trasformarlo in un'opera adatta al grande pubblico; ha scritturato due attori attualmente in salita, Leonardo Di Caprio (Jay Gatby) e Carey Mulligan (Daisy Buchanan), e uno in fase "opaca", Tobey Maguaire (Nick Carraway).
Inserendo, poi, coreografie musicali dirette da Jay - Z e quelle tipiche teatrali, suo marchio di fabbrica.
E questo è stato un bene e un male.

Ad essere sincero mi si è rotto il naso quando ho visto il primo trailer e dell'uso del 3D.
Che poi: che senso ha il treddì?
Soldi, sì, ma comunque inutile.

Il film è bello.
Vivace, colorato e riesce molto bene a rendere i tratti caratteriali dei personaggi - che nel libro sono straordinari -. Funziona perché è ben amalgamato ed emoziona; molto raro nel cinema attuale.
Quello di cui avevo più paura, come ho scritto prima, è proprio la contestualizzazione musicale: su carta sembrava un pretesto per attirare anche il pubblico più giovane ma mi sono dovuto ricredere perchè rende il tutto più accattivante.
È con la scelta di alcuni artifici che Lurhmann vince la sfida di non cadere nella trappola del "il libro è più bello del film" perché trasporre un libro cut to cut con così grande personalità sarebbe stato controproducente.
Gatsby è la storia dell'uomo povero, innamorato di una donna ricca, che accetta la sfida della vita di raggiungere la ricchezza, come fosse un modo per avere a se la donna amata. Gli occhi di Nick Carraway sono quelli del pubblico, gli stessi che giudicano e si immedesimano nel suo sogno ingenue.
È un personaggio, questo, incorruttibile.
Ma alla fine, è l'unico che comprende la vera corruzione morale di un ceto irraggiungibile, anche con i soldi.

Le interpretazioni sono ottime ma standard per un attore come Di Caprio.
Maguire calza una parte perfetta per la sua visione artistica; in alcuni momenti fa anche tenerezza.
Mentre la regia, con l'aiuto di riprese frammentate e panoramiche, ammalia e pur durando più di due ore e per un genere di storia messa su, non annoia.
E questo è un grande pregio.

È una pellicola che fa un bel lavoro e cosa più importante non cerca di superare l'opera letteraria ma anzi se ne serve per riproporre un nuovo punto di vista degli anni che viviamo.

marcodemitri®

sabato 18 maggio 2013

La Casa 2013 [Recensione e Analisi dell'Horror di Sam Raimi]


La Casa 2013

- Lo chalet preferito da Sam Raimi ritorna in un moderno e uruguagio arredamento -


È tarda sera e sono solo in casa.
La luce dello schermo tampona il buio con un soffice alone giallo ocra.

“Stanotte morirete tutti!”
Urla il demone alla TV.

Improvvisamente uno sbuffo di vento entra prepotente dalla finestra socchiusa e mi convince ad indossare qualcosa di più pesante oltre a chiudere le ante.
Devo attraversare un tratto del corridoio per prendere un maglione dall’armadio e premo l’interruttore per fuggire via dalle tenebre; ma un fulmineo bagliore mi avvisa che la lampadina è fulminata, costringendomi a camminare ad intuito.
Quasi ad occhi chiusi.
La pupilla si dilata per espandere il campo visivo, l’udito s’ipersensibilizza e l’ansia pervade il mio corpo in un fremito repentino.
Qualsiasi impercettibile suono diventa un frastuono.
Ogni flebile radiazione diventa uno spettacolo pirotecnico.
Alla veneranda età di ventisei anni sono consapevole del fatto che pur non terrorizzandomi, i film dell’orrore mi hanno scosso nell’ipotalamo.
Un rumore ed ho subito paura.

[…]

Quanti si sono ritrovati in questa situazione?

Nell’immaginario collettivo l’orrore ha sempre richiamato le paure più recondite della nostra psiche: molto spesso figlie di traumi infantili.
Le insicurezze si amplificano dalle più insignificanti manifestazioni di fenomeni naturali; rendendoci spesso vittime di vere e proprie allucinazioni uditive e visive.
E tutto questo mentre siamo soli in casa avvolti dal buio.
Coperti dall’oscurità nella quale si cela l’incognito.
L’Io, esteriormente, si trasforma in un involucro, protettore del cuore di tenebra del nostro essere.

Di questi tempi parlare di una pellicola dell’orrore generalista con atmosfere che propongono gli stereotipi degli anni ‘70 è un azzardo; il cinismo dilagante, diffuso soprattutto dai nuovi media, non ha fatto altro che rendere la nuova generazione meno sensibile a quelli che sono i vecchi espedienti narrativi.
Il canovaccio dell’horror classico ha così ceduto da diverso tempo il terreno alla spietata mercificazione delle sue atmosfere; in un modus operandi che premia il risultato al botteghino invece di una maggiore vivacità della pellicola in sé.
Accantonando così la consapevolezza della sua grande portata sono sorti i vari teen horror con situazioni che definire banali è un eufemismo; ma la semplicità degli script non è un difetto quanto il diventare, in un crescendo d’idiozie, la parodia di se stessi.

Fortunatamente non è sempre stato così.

flashback.

1978.



L’Italia sforna pellicole che reinventano il thriller – horror.
Sono gli anni di Ferroni, Fulci, Bava, Argento.
Gli anni del giallo all’italiana.
Gli USA, intanto, si limitano ad ammirarci e sognare: come era già successo per il neorealismo.
Ma la molla per lanciare il mercato dell’horror, le major statunitensi la colgono diversi anni dopo nella venerazione che un giovane diciannovenne ha dei grandi maestri d’Oltreoceano.
È Sam Raimi che, radunati gli amici Bruce Campbell e Robert Tapert, scrive, dirige e produce un corto: Within the Woods.
Ma per questo momento storico passa in sordina.

1981.


Dopo aver ottenuto un budget di 350.000 dollari grazie a diversi finanziamenti ed utilizzando il precedente lavoro come prequel, Raimi dirige Evil Dead.
La Casa.
È l’anno della svolta.
A poco a poco diventa una pietra miliare.
Perché sdogana lo splatter, inserisce nuovi elementi cinematografici come le shakeycam, create ad hoc per il film.
Ma non solo.
La Casa diventa il primo tassello di una trilogia che scardina l’horror con l’ironia, catapultandolo persino nel fantasy.
Artifici utilizzati anche nei suoi successivi lavori televisivi (Xena, Hercules).

flashforward.

2009.

Un corto catastrofico di soli quattro minuti dal titolo “Panic Attack!” fa impazzire il web. È diretto da Fede Alvarez, giovane regista uruguagio che lo ha realizzato con un fondo economico ridicolo.
E così l’interesse ad Hollywood si fa sempre più palpabile.
Ma chi contatta il giovane?
Sam Raimi, proprio lui.
Dapprima ha intenzione di realizzare una versione estesa del corto ma per diversi problemi il progetto non va in porto e non volendo lasciar sfuggire l’abilità del ragazzo, gli propone il remake del suo film di culto: la Casa.
Nientemeno.
La notizia manda nel caos i fan perché non accettano l’idea di vedere il cult restaurato secondo i dettami della modernità.
Sam è, però, determinato: gli affida soldi, sceneggiatura e regia mentre si ritaglia un ruolo da consulente nella sua casa di produzione, la Ghost House.

2012.

Alvarez insieme all’amico fraterno Rodo Sayaguez completano la stesura; aiutati anche da Diablo Cody, la sceneggiatrice di Juno.
Insieme si impongono di estrapolare una chiave di lettura dell’originale: la crudeltà.

2013.

Evil Dead. 



La Casa è l’Inizio di quel genere d’horror che subdolamente viene messo giù in cantina, accantonato sotto il letto o nascosto quando tuo padre entra in camera per chiederti cosa stai vedendo.
È il classico genere che insieme al porno tu neghi da bambino ma poi ti vanti con gli amici perché hai avuto fegato a vederlo.
Ecco lo splatter insieme al gore è l’horror degli stomaci forti, di chi vuole un bel turbamento psichico.
È la liberazione: il processo di catarsi più violento e perverso che uno spettatore medio può avere.
Negli ultimi anni in un telefonato stile narrativo rafforzato da una copiosa pioggia di sangue in CG, questo genere ha lasciato il posto alla più moderna e ridicola violenza fine a se stessa.
Da questo, dunque, Alvarez è voluto fuggire via attraverso l’opportunità di riscrivere l’horror per eccellenza.

Mia è una ragazza con un passato da tossicodipendente.
Il fratello e gli amici, decisi a porre fine alla sua dipendenza, la invitano a trascorrere un periodo nella casa materna tra i boschi; confidando nell’isolamento la migliore strategia. Quando un giorno scoprono l’esistenza di un libro, il Naturan Demonto – libro dei morti -, in una cantina, iniziano a verificarsi alcuni strani fenomeni. In un primo momento sono etichettati come parto dell’isteria della ragazza ma in seguito diventano ben altro: un orrore inaspettato e feroce.

Con una contestualizzazione più realistica, Alvarez, riscrive la storia eliminando il personaggio di Ash; rende i toni più cupi ed evita qualsiasi ironia.
Riempie di piccoli omaggi ma taglia fuori il paragone con l’originale.
Quindi non chiamatelo Remake, per favore.
Nella canonizzazione dell’uso della realtà come pretesto per inserire una storia di possessione, il giovane regista trova il miglior compromesso. Sfruttando uno smodato uso di primi piani e accelerazioni improvvise la pellicola riesce a carpire l’attenzione dello spettatore, immedesimandolo in un sempre più crudo disegno narrativo.
La tossicodipendenza, poi, crea una prima scusa per inserire il contrasto tra i protagonisti e l’alienazione di Mia ed anche nella seconda parte, quando i fenomeni paranormali si fanno sempre più evidenti, lo scetticismo continua ad essere presente in uno dei personaggi, come repulsione dello spettatore medio.
L’atto finale regala alcune incongruenze ma tutto sommato colpisce per la suggestiva fotografia e l’utilizzo di un make up sbalorditivo.
Alvarez riesce a rendere l’idea della parabola infernale con un’ottima costruzione nello script, aiutato soprattutto dall’imposizione di una direzione cronologica nella fase di pre – produzione.
Grazie all’astuto utilizzo degli effetti sonori che, con l’assenza di una OST pop, rendono ancora più artigiana la lavorazione del film e quasi hitchcockiana, la regia respira di un bel filtro amatoriale.

Non è ironico; ti colpisce nello stomaco.
TI infastidisce come lo stridere delle unghie su una lavagna.
Doloroso come acqua bollente su un’ustione.

Senza esagerare, sembra di aver visto il punto zero del cinema horror post 2000.
Che sia “l’esorcista” della nostra generazione?
Non lo so ma potrebbe essere un ottimo punto di partenza per l’horror moderno.

[…]

Sento grattare piccole unghie artigliate su una grata di metallo.
Nel buio capisco che qualcosa cerca di entrare dalla persiana.
Prendo un accendino ed illumino il cammino .
Ad ogni passo il rumore sinistro è sempre più forte.
Il cuore batte perché non saprei cosa fare se fosse un ladro.
Una corrente d’aria spegne la debole luce lasciandomi di nuovo nelle tenebre.
Sono arrivato, intanto.
Le dita tremano ma trovo in uno scatto di adrenalina la forza di accendere la fiamma.
E nella danza della tenda con il vento, scopro che

il coniglio nano di mia sorella cercava di entrare in casa.
Idiozia non è l’unica parola giusta ma la più politicamente corretta al momento.

Sì, per quanto possiamo sforzarci di essere razionali, nell’incognito, saremo sempre dominati dall’irrazionalità della fantasia più spaventosa.

BU! 

marcodemitri®

martedì 14 maggio 2013

Mi rifaccio vivo [Recensione]


Un fremito.
Leggero.
Ma pur sempre un fremito.



La banalità della commedia italiana moderna, perpetuata da produttori che, alla vivacità della storia preferiscono la cartamoneta dei ricavi, talvolta si scontra con l'intelligenza di piccole opere intrise della sempre più evanescente magia del cinema.

Biagio Bianchetti (Pasquale Petrolo) è un imprenditore con un perenne complesso di inferiorità per il suo acerrimo nemico fin dall'infanzia: Ottone Di Valerio (Neri Marcorè). La competizione che Biagio ha nei confronti di quest'ultimo è tale che lo porta a diverse sconfitte.
Un giorno Ottone, apparentemente intenzionato a porre fine a questo gioco perverso, gli propone un affare, che alla fine si rivela un inganno.
La beffa spinge Biagio al suicidio.
Ma una volta giunto nell'altro mondo, Rubini, nei panni di uno spirito, gli concede la possibilità di ritornare in vita sotto false vesti.
E così reincarnato nei panni di Dennis Rufino (Emilio Solfrizzi), un brillante manager a cui Ottone ha affidato le sorti della sua azienda, Biagio riprende da dove aveva terminato.
Con l'intenzione stavolta di rovinare la vita ad Ottone e vendicarsi, dunque.

Che ci volesse un Sergio Rubini a ravvivare questo scenario appare non scontato ma plateale. Perché nel suo ultimo film, mi rifaccio vivo, impianta una sceneggiatura degna di un film alleniano - con tanto di riferimento a Scoop - non solo: astutamente mette in scena una storia romanzata con il politicamente scorretto e i luoghi comuni della tragicommedia italiana e che trae ispirazione dalla cronaca.

Nel complesso è un'opera brillante che dimostra ancora una volta la grande cultura del mediterraneo Rubini.
Facendo leva sul suo amore per il teatro e la formazione politica, ricama uno script con omaggi alla filosofia pirandelliana: la teoria del doppio e dello scambio di ruoli tra eroe positivo e negativo in un gioco allo specchio.
Il regista è il demiurgo che, con simpatia ed ironia, non risparmia critiche.
"La cosa positiva è che dopo la morte non c'è nulla" cita il protagonista prima di vivere l'esperienza ultraterrena con una connotazione più reale della realtà inscenata.
La metafisica costruita da Rubini è infatti realista e comunista, come finirà per rivelare il protagonista ad un gruppo di ecclesiastici.
Un sassolino nella scarpa che Rubini si toglie con soddisfazione, ricordando il Moretti più scanzonato.
Atto dopo atto il regista confonde lo spettatore modificando la caratterizzazione dei suoi protagonisti; è un'ironica cornice in cui emerge con forza la scissione tra buono e cattivo in un continuo ossimoro con uno sfondo di subdolo sberleffo alla filosofia orientale.
Ma uno dei pregi del film è anche quello di non scadere mai nel moralismo; la chiave di volta è incastrata in un'architrave in cui l'elemento centrale della storia, Il sucidio dell'imprenditore, è solo un pretesto per imporre l'idea di determinismo che il regista coglie dalla vita.
Il "Tutti hanno diritto ad una seconda possibilità" funziona solo se si ha una consapevole presa di coscienza delle proprie potenzialità in un darwinismo sociale dal motto "non giudicare mai solo la superficie".
Ed in virtù di ciò tutti i personaggi principali nascondono un lato negativo, oscuro e a volte anche perverso, in un impeccabile abito perfetto, tra l'altro
È uno schema che non annoia o cede al ciellino paternalismo, anzi, diverte, fa riflettere e, nella demenzialità, strappa qualche risata.

Uno script ben recitato, anche.
L'istrionico Neri Marcorè, vestito da rampollo dell'alta borghesia imprenditoriale, ricama batutta dopo battuta un personaggio credibile e divertente, Solfrizzi interpreta molto bene il ruolo della vittima ed infine il dissacrante Lillo che appesi i panni della Iena e separato dalla controparte Greg, sembra trovarsi a suo agio in quelle di uno straordinario inetto.

Come dicevo all'inizio è solo un fremito.
Forse troppo leggero per smuovere un corpo.
Che appare ancora intorpidito.

"Eppur si muove", però.


marcodemitri®