mercoledì 26 agosto 2015

La notte di Sant'Oronzo.

Accadde per caso, tutto, tutto quanto.
Scoprì tutto per caso, senza saperlo.
Senza conoscere nulla.
Una rivelazione, un bagliore nel cielo tenebroso di agosto.

Durante.

Mi trovai immerso in una bolgia di persone, sulla strada collosa di zucchero e sporco. 
L'odore intenso di alcol e di testosterone, di esseri sudati che intonavano canti a squarciagola, imprecando il nome di Dio in una lingua contorta, sotto la statua vigile e immobile del santo patrono.
Ero nel mezzo della festa di Santo Oronzo. 






Domenica, il giorno prima.


Il fatto che fosse domenica era testimoniato dalla voce strillante di mia madre che, a differenza degli altri giorni, lo dedicava alle chiamate abituali alle sue amiche più care.
Le migliore amiche, diceva lei. 
In realtà si trattava di persone debitrici di un mucchio di soldi per la sua attività.
Lei gestiva un piccolo chiosco di gioielli nella via principale della città, un'enorme arteria, pulsante di corpi, che si congiungeva con l'altra strada principale, quella pulsante di auto, di lamiere. Mia madre, lei, daa un po' di tempo, era stata fagocitata, divorata, dal vizio del gioco. I soldi non bastavano mai perché amava sperperarli con i gratta e vinci. 
Nessuno lo aveva capito, in pochi, pochissimi avevano notato strani comportamenti. Lei sorrideva a denti stretti, le labbra le si allungavano fin sotto gli occhi, la falsità di quel sorriso copriva perfettamente la sua depressione. 
Un phard a buon mercato. 
Ma io sapevo benissimo, la conoscevo bene. I suoi stratagemmi erano fin troppo banali, quasi a voler insultare la mia intelligenza. 
E così ogni qual volta mi chiedeva, mi presteresti dei soldi? Devo fare la spesa, io le rispondevano con nonchalance, ma come? Non sei appena tornata?
Piccoli trucchetti.
E quando insistevo, quando le mie domande si facevano via via più insinuose, lei, forniva scuse più elaborate, sì, ma ho dimenticato di comprare l’acqua e non ho soldi spicci con me.
Spicci con me. 
Io glieli prestavo, non senza sbuffare, e lei, poco riconoscente me li strappava di mano.
Miei, finalmente
Era pur sempre mia madre anche se a volte mi veniva di ammazzarla come i ragazzi delle stragi americane.
Ma la domenica era anche il giorno in cui cercavo di dormire più a lungo.
Invano, devo dire.

Ancora assonnato e con gli occhi foderati in una espressione addormentata, mi affacciai alla finestra, una piccola e pallida finestra, un rettangolo di alluminio che obbligava lo sguardo, incastellandolo nel condominio dove abitavo. 
Le nuvole paffute, sfumate di grigio e così basse da sembrare imminenti alla caduta minacciavano un temporale.
Sì, perfavore. 
La festa del Santo Patrono si avvicinava e la provincia, i sobborghi e i turisti si sarebbero riversati nel centro della città. 
A passeggiare per le bancarelle.
A comprare noccioline e cianfrusaglie.
A rubare con egoismo l'ossigeno, a rilasciare anidride carbonica e gli umori e gli odori molesti si sarebbero concentrati in una cappa. 
Un macigno invisibile. 

Cosa devi mangiare per pranzo?
Non lo so.
E mena sbrigate ca poi aggiu sci fatiare.

In cucina non parlavamo molto.
Io e mia madre.
Ma per un motivo o per l’altro capitava che uscisse fuori un argomento. 
Il più odiato da entrambi. 
Hanno appena finito di costruire il palco dove si esibirà la banda della città, disse lei, emozionata. 
Nella cucina il televisore era più di un ospite, un commensale alla mia tavola, sempre sintonizzato sul canale della rete locale. Gli abitanti della mia città si sentivano così importanti da considerarsi dei cittadini di alto livello, in una terra dal mare splendido, pensavano poi di poter organizzarsi in una regione; avrebbero fatto carte false per poter vivere in un lembo di terra a  stante, lontano dal resto del Paese, in mezzo al mare. 
Un'isola felice, un'isola il cui destino sarebbe stato quello di essere sommersa dalle acque e distrutta come Atlantide.
In fin dei conti erano orgogliosi del loro essere provinciali e la festa del santo patrono era lì per ricordare a tutti quanto in basso potessero cadere.
Quanto poppeti potevano diventare.

A proposito del palco, continuò mia madre.
Sai che quest’anno hanno dedicato una cerimonia al grande De Mauro?
Mpf, biascicai mentre mangiavo.
Sono contenta. È importante riconoscere chi ha fatto tanto per questa città.
Ma dai.. è solo un imprenditore spavaldo che detta le regole della città perché ha i soldi, dissi decidendo di dare un taglio netto a quegli elogi, I suoi contatti gli permettono di fare lo strozzino con gli imprenditori che si riforniscono da lui e poi e poi usa quei soldi per prostituzione e droga. Dai su, siamo realisti. 
Ciò scatenò inevitabilmente la sua ira.

Ma come ti permetti? Tu, poi. Parli proprio tu. Cosa hai fatto finora? Cosa fai? Guardati.. Hai quasi trent’anni e passi il tempo a giocare ai videogiochi, guardare i film e non so cos’altro. Datti una regolata prima di sparare a zero su persone che fanno qualcosa nella vita.
Ecco, sapevo saremmo finiti in questo discorso, lo dissi evitando di alzare lo sguardo e continuai ad ingurgitare senza assaporare tant’era il fastidio del paragone.
È inutile. Basta che qualcuno si vesta bene, parli bene e si muova bene per imbambolare tutti voi.
Voi? Voi? Sempre voi. Ma che vuoi dire? Tu non fai parte di questa città? Smettila di parlare male della tua città. Della tua splendida città.
Strabuzzai gli occhi e le feci il verso. Ero stanco. Ma, per spirito di contraddizione decisi di rispondergli a tono.
Mamma, questa splendida città è tutta apparenza. Il fatto che una persona non possa vestirsi o pensare fuori dagli schemi indica un grave deficit. La gente qui, compresa tu… sì, compresa tu… è provinciale. Si nasconde pur di non dire cose brutte. Pur di non definire bene quello che pensa. È ipocrita, ignorante, imbecille la gente che vive qui.
Come volevasi dimostrare, lei andò via, lasciandomi a tavola solo, tra le voci del televisore, il rumore del metallo della forchetta che strideva sulla porcellana del piatto, eppure sarebbe dovuta restare ad ascoltare perché avrebbe potuto evitare, quell’anno, il teatrino degli orrori che si sarebbe consumato.

Allora che si fa?
Era Giovanni al telefono.
Ah non so, risposi.
Io vorrei solo che finisse tutto presto.
Ma come? Un giro per le bancarelle non lo vorresti fare?
Secondo te?
No?
Ennò.
Ci riaggiorniamo, dai.
Sì, forse…

Appena chiusi il telefono fui colto da un lancinante dolore alla testa.
Mi stesi giusto il tempo per capire cosa fosse e chiusi gli occhi. 
Sul letto i muscoli si rilassarono, calma, tranquillità.
Persi i sensi. 

Nebbia, foschia. Caldo insopportabile. 
Fastidio.
Confuso, nausea: è mattino presto.
Sono una strada deserta, mi stupisco dato il giorno prefestivo.
Sono sull’asfalto.
E non so per quale motivo sono lì.
Barcollo.
Flash.
Bancarelle vuote, il vento urla qualcosa. 
Mi ritrovo in un bar.
Un uomo entra, sono solo, i passi sono lenti e potenti. 
L'uomo, dopo essersi guardato intorno, grida qualcosa.
Qualcosa. 
Dal suo cappotto estrae un fucile, facendo intravedere che indossa una maglietta di James Bond, operazione Goldfinger.
Non ho il tempo per chiedermi cosa succede che scappo via, per le scale, cercando un rifugio. Non ho le chiavi, tutto è chiuso.
Giro dietro un angolo, riflettendo su cosa stia accadendo.
Sono contratto, le mie gambe tremano.
Confuso.
Sono rannicchiato in un angolo, mi vedo dall'esterno.
Spaventato e confuso.
Gradino dopo gradino si sentono i suoi passi.
Sicuri e potenti.
L'angoscia sale, e soprattutto il fatto di non capire se sia un sogno o realtà.
Ma ancora misterioso è il perché.
Quando intravedo le sue scarpe, degli scarponi neri, mi muovo di scatto e urto col capo l’estintore. 
È l'unica arma che ho in quel momento. 
Decido.
Decido.
Decido di afferrarlo.
Confuso e intorpidito. Aspettando il momento giusto.
I passi sgraziati che attribuiresti ad un uomo forte e possente.
Sono lì per premere il grilletto, reggendo il tubo. Una proboscide nera e grinzosa. 
Dove sei?
Eccolo.
Confuso e stranito.
Sparo spruzzi di schiuma bianca.
Foschia, tossisco.
Non si vede nulla causa del gas ma si ode il tonnfo dell'uomo misterioso, che probabilmente colpito, perde l'equilibrio e cade.
A terra, si contorce.
La pelle si aggroviglia su se stessa ricordando la cartapesta. Le labbra scompaiono, lasciando il posto ai denti. Inizia ad intravedersi solo lo scheletro.
Mi ricordo della cartapesta, così stiracchiata e frammentata, così orrenda nella sua bellezza.
L’uomo in nero strilla e urla, biascica parole nel suo dolore.
In sottofondo il contatto tra la schiuma dell’estintore e la sua pelle frizza, come l’anidride carbonica nell’acqua.
Ci vediamo domani… domani…. Domani.
Ci vediamo all'inferno William Munny.
Il "già" di William Munny.
BAM.
Il colpo di pistola di Little Bill.
La televisione accesa su dio solo sa che canale mentre l'orologio segnava le 18 e 30.
E io steso sul letto.
Domani?.. Cosa?
Mi chiesi, confuso e spaventato. 

Qualche ora prima.
La gente era in visibilio e si accaldava emozionata nel contemplare le luminarie, un puzzle di colori. Li vedevo mentre attraversavo la piazza per raggiungere Giovanni.
Alla fine avevo ceduto alle sue richieste di leccesità.

La festa devi comunque vederla.
Ma a me non va.
E che facciamo?
Andiamo, sì. Ma giusto perché non mi va di prendere la macchina e di vedere mia madre. 

Santo Oronzo mio quest’anno speriamo ti dedicheranno una bella festa. Così porti un po’ di fortuna a noi.
Sì, ca sordi nu nci nde stannu.
La statua del Santo si ergeva con il capo inclinato verso il basso,  sulla piazza centrale, e le tre dita, alte, indirizzate al cielo.
Per un abitante era normale, qualche volta, fermarsi e mirarlo.  
La tristezza della vita li spingeva a chiedere, ad implorare: felicità. Le preghiere si univano in un corollario di voci baritone, noiose, propagate da un capo all’altro della città.
Ma a pochi interessava essere felici quanto avere tanti soldi. E il rammarico di non poter mai realizzarsi, non faceva che aumentare la loro frustrazione.
Si rifugiavano in molti nella routine, così apparentemente sicura, cercando di chinare il capo ai potenti, per avere favori in cambio. Per posizionare meglio i figli, se stessi. Perché anche se non erano ricchi, i proletari, dovevano fare in modo che i ricchi li ripagassero.
È colpa loro se siamo poveri, che ci aiutino loro. 

De Mauro era uno dei più quotati nella loro scala di devozione e invidia. 

Le bancarelle furono disposte come ogni anno sul basolato della piazza.
Piccole capanne bianche delle quali i proprietari erano il più delle volte energumeni.
La festa aveva luogo negli ultimi giorni dell’estate e col caldo ancora incessante, invitava la maggior parte di quei venditori a vestirsi con abiti particolarmente trasandati, degli stracci.
Durante la mia prima passeggiata, ad ascoltare e odorare il vento della fiera, mi fermai ad osservare, ammaliato, una famiglia di bancarellai che vendeva noccioline.
La cosa che più mi attirava era la somiglianza spaventosa dei loro volti. Il DNA non tradiva: erano figli l’uno dell’altro.
La madre, con una veste lunga, apparentemente fresca, sedeva su una sedia di legno, cigolante.
Il naso aquilino sporgeva imperante da una pelle color verdastra, nel contorno degli occhi grigi, delle occhiaie, smagliature.
Gonfia com’era, quella signora, straboccava sulla sedia, come le gelatine multi colore che vendeva e stava lì, con un braccio in panciolle e una mano tirata su fino in bocca, per sbucciare meglio le noccioline, che ingurgitava, senza guardare.
Meccanicamente.
I due figli, invece, le vendevano ai passanti, curiosi, il volto identico alla madre, la statura diversa e con smorfie contratte su un lato.
Dei tic.
Poi arrivò la gente, che iniziò ad occupare lo spazio.
Nell’aria, un rombo, un urlo e una forte luce.
Cosa succede? 
Un flash e un altro e un altro ancora: ero quasi cieco.
Provai a guardarmi intorno, strizzando gli occhi.
Niente, la gente continuava a passeggiare.
Cos’era successo? Mi chiesi ancora una volta.
Caddi per terra, battendo la testa e persi conoscenza per diverse ore.

Il male era sceso, attirato dall’ammasso di carne, di follia, in un’afosa e pacchiana festa santa.

Durante.
Mi svegliai diverse ore dopo, sui gradini di un bar. Ero stato disposto lì per non bloccare il passeggio. Stordito e con un bernoccolo cercai di alzarmi e di capire cosa mi fosse successo.
Il cellulare non prendeva. Non avevo dato un appuntamento fisso a Giovanni, non sapevo dove ci saremmo visti. Eravamo rimasti d'accordo che lo avrei chiamato una volta arrivato.
Già, una volta arrivato. 
Mi faceva male la testa e soffrivo di nausea, tutto dovuto alla botta presa, pensai.
Quando flessi le ginocchia per ergermi dritto strabuzzai gli occhi perché quello che mi si parò dinanzi fu spaventoso, inquietante: il peggior spettacolo mai visto
C’erano due entità mostruose, aggrovigliate in luci spaventose. 
Bagliori e tuoni e poi fuoco.
Il cielo nerissimo intorno e le persone continuavano ad ingozzarsi come se non stesse accadendo nulla.
Che cosa? Che..? Io non riuscivo ad esprimermi. E così urlai. Ma il risultato furono tanti sguardi e indici puntati. È pazzo, si mormorava intorno.
Corsi e andai incontro quelle due entità, la folla davanti a me faceva da muro e fu difficile poterla penetrare.
Giunto nella piazza centrale potei vedere meglio.
I mostri.
Uno colorato di giallo, l’altro di rosso. Gridavano bestemmie e si sferravano pugni.
Fu a quel punto che entrambi si voltarono, mi avevano individuato.
Con la voce robotica mi rispose il giallo: fuggi, fuggi via.
Ma cosa? Ma che succede?

Sono decenni che ogni festa di S.Oronzo combatto il demone della follia. Cerco di distruggerlo perché divora le coscienza. 
E cosa fa? Cosa succede?
Intanto fu colpito da un pugno e cadde a terra, tra la folla. Ma nessuno lo vedeva, la gente lo trapassava. 
Il mostro rosso allora si lanciò contro di me. Nei suoi occhi lo stupore che qualcuno, un umano, potesse vederlo.
Il giallo intervenne trattenendolo per una gamba.
Fuggi, fuggi via.
No, voglio sapere cosa succede.
Non è il momento.
Poi di nuovo il mal di testa. Non è possibile, urlai.

Provai ad immaginare come potevo essere visto dalle persone, un ragazzo che urla e si dimena. Ma il pensiero svanì subito perché la festa aveva afferrato tutti fin dal profondo, penetrando nei loro corpi.
A nessuno fregava nulla se non mangiare e strofinarsi l'uno con l'altro, quasi scivolare per il sudore. 

Devi scappare o sarai contagiato dalla follia della festa patronale, mi disse una voce nella testa.
La follia della festa patronale?
Sì, ogni anno si ripete. Le persone mangiano e bevono e sporcano. Si fanno prendere da una eccitazione enorme e coinvolgono parenti e amici, vecchi e bambini. Si lanciano così alla volta della festa, eccitati dalle luci.
Non ti sei mai accorto che durante questa festa le persone appaiono più folli del solito?
Sì.. è vero.
Ecco.
Ma da dove nasce tutto questo?
Di fronte a me si fronteggiavano invece i due giganti.           
Come si sconfigge?
È impossibile. Le persone amano farsi cogliere da questo. Il giorno dopo adorano parlare della festa. Non c’è scampo.
Ma com’è?
Accade ogni anno, è una routine.
E tu?
Io combatto perché devo ma non ce la faccio. Perdo sempre.
Ci sarà qualcosa, deve esserci qualcosa.
No. Mi spiace.

Un boato.
Uno più grande.
E il cielo bianco.
Uno schiamazzo.
Un altro boato.

Svengo.
E mi risveglio. Non capisco cosa mi sia successo. Sono in mezzo ad una fiumana di persone che si risvegliano anche loro.
La gente sbadiglia, col sole debole dell'alba a brillare sulla faccia. Le smorfie contratte del sonno. Si sveglia, sembra, dopo un lungo giorno trascorso tra bancarelle.
Alla fine hanno vinto, ha vinto l'essere rosso, emergendo sporca e stanca dalla follia della festa patronale, illuminata dalle grandi luminarie.

Spilli colorati a perforare il cielo.


Il giorno dopo. 
Nessuno ricorda nulla. 
Mia madre mi cerca.
De Mauro parla al TG della bellezza di queste dimostrazioni di attaccamento alle antiche tradizioni cittadine. 
È tutto tornato alla normalità.
Per un altro anno, ripeto a me stesso.
Io sono ancora qui, a non far nulla, steso sul divano. 
Conosco bene come andrà a finire e non ho voglia di far nulla per far cambiare le cose.
Poi una voce mi spaventa più di tutte.
Le luci si spengono, un leggero bagliore.
Un flash.

"L'anno prossimo organizzeremo meglio la Festa", dice De Mauro. 

Organizzeremo meglio, mi suona così spaventoso.
I corsi e ricorsi, che non si placano nell'eterno orrore della quotidianità provinciale. 

Fuggi.

Fuggi via.
La casa è chiusa e un uomo in tuta rossa, schermato dalla testa ai piedi, mi nebulizza qualcosa addosso. 

Sento divampare un'estasi momentanea, qualcosa di rilassante, i muscoli mi abbandonano.


"Paziente 2015… 


cancellato."



marcodemitri®




2 commenti:

  1. bellissimo racconto. fuorviante e metafisico. adorabile poi la descrizione della vita "familiare" del protagonista. :D

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