sabato 31 ottobre 2015

La festa te li morti.

31 ottobre, la mia notte. 

"Quista ete la mia notte."

Marcello il baffo lungo sedeva sulla ringhiera del portone di nonna Concetta, di fronte un bar. 
Sedeva leggermente inclinato in avanti per non patire troppo gli acciacchi della vecchiaia, tra cui un'artrosi con cui aveva ormai familiarizzato e che talvolta gli tornava persino utile per capire quali previsioni del tempo aspettarsi per il giorno dopo. 
Marcello era anche detto, della bestemmia facile, e il perché era facilmente intuibile. 
Quell'artrosi, per esempio, costituiva spesso motivo di imprecazioni a cui seguivano una serie di sputazze e poi altre bestemmie.
"quale santu me manca? ah, mannaggia san pistone."
In quella via, diventata ormai la via delle sputazze e delle bestemmie, Marcello dava un senso alle sue giornate.

"Quista ete la mia notte". 



Marcello aveva una età che dava, ormai, poco spazio al futuro. E quella notte non aveva dormito bene. 
Lo spettro di una fine vicina, molto vicina, lo aveva avvinghiato.
Lo aveva inseguito nei sogni e costretto a svegliarsi agitato e con la saliva agli angoli delle bocca raffreddati e solidificati. Chissà da quanto tempo era lì a vivere incubi mostruosi con la bocca aperta. 
Ci aveva messo un po' a riaddormentarsi perché il sangue gli si gelò quando ascoltò un eco metallico, un suono simile a quello delle catene che cadono per terra.
Il cuore era impazzito. 
Le pupille dilatate. 
Suggestione, si giustificò. 
Ma non capì come giustificare il vento freddo ad accarezzargli il volto e le parole: 

"Quista ete la tua notte.

MARCELLO"

a propagarsi per le stanze vuote.  

Con le luci del mattino passò tutto ma c'era qualcosa di strano in quella giornata che non gli dava tregua nei pensieri.

"Quista ete la tua notte", non riusciva a dimenticarlo.

Ad aspettare su quella ringhiera, si era quasi fatto pomeriggio in una giornata qualsiasi d'inverno e il sole debole ma pur sempre caldo infastidiva la sua pelle raggrinzita, costringendolo a spostarsi dai fasci di luce. E fu in uno di questi momenti, voltando il collo, che Marcello intravide sulla sua sinistra tre sagome bagnate dalla luce. 
Disse, ah, ho trovato ce aggiu fare. 
E così, mentre quelle sagome si facevano via via più vicine mostrando i lineamenti di tre ragazzini, si preparò fischiettando ed esordì. 
"Beggi mei a du sta sciati?"
Loro, intimoriti, lo guardarono. Fissarono quel lungo baffo. E, con quella spavalderia da nuova generazione, risposero quasi in coro:
"allu barra". 
"Allu barra?" ripetè lisciandosi quel baffo. 
"Sì."
"E ce iti fare? Siti piccoli pe lu cafè."
"Mammama m'ha dittu cu pijamu nu picchi de caffè da macinare."
Rispose uno di loro continuando a fissare il baffo, macchiato di giallo; le sigarette, pensò.
Apriti cielo a quel punto. 
"Ah.. Uliti sapire na storia su ddhu barra?"
Loro fecero cenno di no ma Marcello da uomo forte del sud fece finta di nulla.
"Mo bu la racconto lo stesso."

Quando ero giovane, iniziò, di quel bar, e lo indicò, c'era una leggenda
Una leggenda dell'orrore…

Nei ragazzini brillò un leggero interesse. 

Quel bar si diceva… 

Si diceva che quel bar si rianimava

la notte.

Continuo?

Annuirono. 

Mi raccontava ogni festa te li morti, mia nonna, questa storia.



Quando la notte scende a coprire di un velo la città, quando la notte ti sfiora come la mano fredda di un conoscente sulla pelle nuda per salutarti improvvisamente, quando la notte di Ognissanti giunge, in quel bar accade qualcosa.

'Ete ura, sali Vittorio!'.

L'eco di una voce si espanse tra i muri bianchi e freddi.

Trascorso il giorno, si erano assopiti i corpi caldi e il silenzio avvolgeva ogni orecchio, scacciando i suoni della vita e tutto ciò che avrebbe potuto interrompere quella lugubre atmosfera d'ottobre. 
Quel locale era lì, immobile, e se ti fossi chiesto da quanto tempo e perché proprio lì e cosa ci fosse stato prima, c'era qualcos'altro?', no, avresti risposto ma, in realtà, non del tutto convinto. Lo fissavi e te ne innamoravi di quella struttura perché così bella e antica, così meravigliosa bagnata di giorno dal color miele del sole e resa candida ed elegante dalla luna la notte. 
E poi c'era quell'odore di umido, quel profumo di inverno, leggero, che combinava il più antico e scenografico dei panorami. E interrotto il sogno, il miragio, con una piccola coltre di foschia trafitta da una luce fioca, che si accese spavalda. Uno scatto di ciglia, che illuminò l'interno.

'Attentu ca nci stannu li scalini' 'Sine, mannaggia sacciu iou.''
Come una linfa, che scorre intraprendente nelle venuzze delle piante, la luce donò energia per accendere lo stereo in quel bar. Partì con l'Aida, imponente e classica.

'Ancora sta musica tenenu?' 'Amu cangiare barra!' 'Sine, Giovanni.'

Quel bar era chiuso da qualche ora ma quei passi mescolati alle voci rauche che emergevano dalle scale vomitate in una distesa di scaloni giù, nelle tenebre, lo riaccesero.


'Ste strade nu b'eranu cussì.' 'ma se iou me ricordu ca era picciccu e matrima me dicia sempre 'statte attentu quandu traversi la strada ca a quai su tutti pacci'. 


Emersero due arzilli vecchietti, coperti di un cerone bianco e di una aurea quasi spettrale e si muovevano composti fino al bancone. 

Si muovevano sicuri e compatti.
'Preco signori'.

Li interruppe il barista. Da una certa distanza non erano evidenti le sue borse sotto gli occhi ma più ci si avvicinava, maggiore era la sensazione spaventosa avvolgente, stritolante. Il barista asciugava convulsamente una tazzina e mentre ripercorreva il gesto nella stessa esatto movimento, chiedeva.

'I signori hanno chiesto?' 'Do cafe!'
Disse Vittorio con una voce sicura e profonda. E si mosse quel barista, e dai suoi movimenti, si ravvivò quel bar come un domino. Ritmo e musica.

"Guarda Vittorio, guarda, nu musciu!"
"Sthi Sthi!"

I due si mossero fino le vetrine, da dentro, e colpivano il vetro per spaventare il gatto che curiosava.
Era solo e appollaiato, serpeggiava la coda e fissava il nulla.
O meglio: quello che sarebbe apparso a tutti.
Più all'interno si muovevano le ombre, più quel felino si innervosiva. 
Finché iniziò a soffiare ma nssuno poteva ascoltarlo.

"Lassalu Giovanni, Lassalu."

Quando il tipico del braccio della macchina del caffè sbattuto con violenza per eliminare la posa all'interno della doccia, si mescola con il punto massimo dell'Aida, i due signori non possono fare a meno di cantare. E in quel locale illuminato da una tetra luce, che da fuori sembra una punta gialla nell'oscurità - come una nave che dondola nell'immensità dell'oceano in notturna - l'interno con quel marmo lucente, quell'odore di caffè, si surriscalda. 
Si accalda. 
Esplode.

'Buono sto cafè'

'Lu megghiu' 'Discita puru li muerti' 'È chiaro, infatti me sentu meju!'
E i due si guardarono, sorrisero, lanciando uno sguardo al barista, che rise anche lui. Risate grottesche e roboanti.
Risate che in qualche attimo scoprirono il teschio sotto la pelle.
Lo scheletro bianco e candido. 
Il cerone cadde, una nube di polvere si sollevò.
'Ce cazzu!'
Dalla mano di vittorio, da quella che potremmo identificare come pelle, si vaporizzò nell'aria un leggero fumo.
'Ahi'.
Un raggio di luce solitario trapassò il rettango della saracinesca e si fissò, in una linea retta. Una lancia luminosa nel buio pesto della notte. È arrivato il nemico. È l'albeggiare, che violentemente intima, obbliga a volatilizzarsi.
'Beh, ni bidinu la prossima festa te li morti. È tardu.' 'Ciao Giovanni' 'Ciao Vittorio'
E l'uomo in divisa salutò. 
'Arrivederci, signori.'
E i due scesero, abbracciati da amici, ingoiati dalle tenebre e mentre procedevano dritti, rilasciarono un leggero bagliore. 

"Ragazzi arriviamo."
Da sotto il bar giungevano lamenti, urla, grida.

Il giorno stava arrivando e per le anime dela notte non c'era più posto, disse Marcello, non c'è più posto il giorno dopo Ognissanti. E si racconta che in quel bar accadrà questo, questa notte, anche questa notte.

I ragazzini lo fissarono poco impensieriti.

Piaciuto? Chiese loro.
E loro lo guardarono quasi sbuffando e annoiati, e no risposero.
Ci sono storie migliori, queste non fanno per niente paura.
Quell'uomo non sembrò minimamente turbato dalla loro scarsa facilità di impressionarsi. Fu felice comunque per aver trascorso del tempo e quando si congedarono, lui prese per mano uno di loro, stringendogliela e poi gli porse lo sguardo, come se volesse fissarlo da uomo a uomo. Gli porse lo sguardo e gli occhi gli caddero, scoprendo delle orbite ossute e vuote, il bambino urlò ma Marcello non si staccò da lui.
Gli altri indietreggiarono, inciampando.
Marcello continuò a stringergli la mano forte, oggi è il mio ultimo giorno di vita, queste cose vi impressionano?
E in un urlo di disperazione, Marcello si lasciò cadere anche la lingua, la pelle gli si bruciò e si lanciò al collo del ragazzo, mordendolo.
Il ragazzino stramazzò al suolo, dandosi delle scosse come le code di lucertola; gli altri riuscirono a scappare via. L'uomo restò in piedi, senza vita, insanguinato, morto.
Un morto che cammina.

Avrebbe potuto dire tante cose, che bella giornata, ho fatto qualcosa ma ormai senza vita non poteva più.
Accadde dunque che una voce da quel bar, dove le tenebre erano ormai scese, lo accolse.

Marcello, ti chiami no?
Sì, rispose lui.
Ieni quai, ieni. Ca ni pijamu lu cafè,
Chi sei? Chiese con voce tremante.
Come chi sono? Hai finito proprio ora di raccontare la mia storia… quella mia e di Giovanni… Sono Vittorio. 
Ma com'è possibile?
Da stanotte sarai uno dei nostri… Marcello, ete la tua notte.
Vieni, vieni, ti presento gli altri. Questo è il nostro ritrovo, trovi tutti i leccesi morti qui o meglio quelli abitudinari, questo è la nostra pausa caffè durante l'anno, questo è il nostro..

PURGATORIO.

marcodemitri®


Nessun commento:

Posta un commento