sabato 1 giugno 2013

La Grande Bellezza [Recensione]




Sorrentino, il nostro unico regista vanto a Cannes e insieme a Garrone tra i pochi nel Bel Paese a poter essere definiti tali, richiama la Dolce Vita, incastonandola in una Roma surreale e schiava della effimera mentalità borghese.

Toni Servillo è Jep Gambardella, un giornalista navigato e con un'unica grande opera letteraria alle spalle: L'Apparato Umano. Affascinante e dalla fine intelligenza, trascorre la sua vita tra feste mondane; la pigrizia però lo esclude da un possibile ritorno alla scrittura. Ma al compimento del sessantacinquesimo anno di età la sua insoddisfazione lo spinge a rivivere i luoghi ispirazione che lo hanno reso tale.
E tra silenzi e personaggi macchiette, cercherà di riviver quel vecchio mondo ormai perduto; quella grande bellezza che non esiste più.

In una Roma illuminata dalle luci della frivolezza, Servillo consacra indiscutibilmente il suo straordinario talento artistico; il protagonista dalle origini napoletane e dai costumi accattivanti attraversa la città in solitaria, in una continua ed instancabile camminata che fa molto Mastroianni, incontrando personaggi e riscoprendo luoghi che lo hanno reso il re dei mondani.
Sorrentino dirige la pellicola con grande studio dei particolari, concedendosi, talvolta, delle licenze poetiche: la città eterna svela le sue amenità tra sublimi riprese cariche di suggestioni. 
Il paragone con la Dolce Vita di Fellini sorge spontaneo, veloce, obbligato; ma mentre nel primo la bellezza risiede nella sfacciatezza dei costumi che nell'Italia di quegli anni esplodono, qui, invece, sono chiusi in un mondo in decadenza.
 Filtra, così, la colpa della compagine borghese, una corazzata sospesa dal mondo; essa risiede in una sorta di iperuranio, elegantemente ricostruito su un terrazzo con magnifica vista Colosseo, e in attesa di essere riabilitata.

Così fuori dal comune, così superficiale. 

Umberto Contarello, lo sceneggiatore, scrive dialoghi feroci: sono protagonisti falsi, doppiogiochisti ma consci della loro frivolezza. 

Jep è colui che fa da ago della bilancia, che riporta alla realtà i suoi diversi alter ego.
Ma se aveste pensato per un momento che il noto regista napoletano dissolvesse l'argomentazione in un continuo battibeccare dei protagonisti, beh, sbagliate. 
La Grande Bellezza è un film semplice, troppo, per poter essere definito un capolavoro. 

Badate bene: non parlo di una semplicità nel senso più estetico quanto in uno contenutistico. 
Perché sullo sfondo percorso da Servillo si accendono pretestuosi scontri per evidenziare il carattere quasi parodistico che il regista dona alla sua città set. 
E così uno dei leit motiv principali, la pigrizia, diventa un pretesto per spingere lo spettatore a compatire quel mondo. 

Non solo. 

La vecchiaia, un’altra grande ricorrenza, che sfrutta la gioventù - struggente l'episodio della bambina pseudo artista "vieni che il tuo talento ci farà vivere" - è ripreso con occhio disincantato, è la realtà dei fatti.

Come detto prima, la pigrizia domina la scena ed infatti non mancano le continue scoccate al ceto borghese reo di aver dormito sugli allori mentre il paese cadeva a pezzi; cito anche qui un episodio significativo: un personaggio, che si scopre essere mafioso urla “siamo noi il motore di questo paese”. 

Come quella giustificazione di operosità maligna; un vero cancro urlato come fosse una liberazione.
I palazzi rococò più che barocchi sono vuoti, le stanze sono enormi e fredde; la ricchezza ha generato noia e quell'ostentazione forzata è il più importante strumento e l'unico a disposizione per prevalere sul popolo.
"Che lavoro fai?"
"Sono ricca"
"Bellissimo impiego."
Uno scambio di battute veloci che riassumono la pellicola. 
Con una Isabella Ferrari in gran forma, un Carlo Verdone ironicamente simile a Jack Nicholson e persino una ottima Sabrina Ferilli è un film complesso ma semplice.
Forse pretenzioso o forse no.
Sorrentino si libera, finalmente, di quell'estetica fine a se stessa de This Must Be The Place per incartare un'opera raffinata, bella e significativa. 
Non è preciso come ne Le Conseguenze dell'Amore, scanzonato come ne L'uomo in più, grande come ne Il Divo ma se c'è qualcosa di cui andar fieri è che il suo cinema raccoglie applausi e, nel dibattito locale genera critiche, anche.


È un film difficile da apprezzare nell’immediato.
Come il Fellini de La Dolce Vita. 

marcodemitri®


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