giovedì 7 febbraio 2013

Lincoln [Recensione]




Steven Spielberg, che non ha bisogno di presentazioni, racconta una delle vicende politiche più importanti della storia americana e non solo. Ma se l'accostamento all'ultimo lavoro da regista di Clint Eastwood, J.Edgar, pare essere scontato, non lo è, invece. Perchè Lincoln non è un biopic, o meglio nel senso stretto del termine: la storia della vita del Presidente.
Il vero protagonista è al contrario la parola ed è questo il punto su cui basare la scelta se andare a vederlo o meno.

La pellicola si apre con una battaglia, che oltre ad essere fuorviante per lo spettatore è anche un modo per presentare il personaggio. Ed infatti con il solito tocco, patinato e geniale, Spielberg permette l'ingresso del Presidente, uno statuario e irriconoscibile Daniel Day Lewis. Le battute iniziali sono ragionate e perfette per costruire il film: il dialogo tra Lincoln e due commilitoni, di cui uno nero, la rabbia per una guerra inutile e la scioltezza con cui il politico rincuora i suoi uomini.
Il film viene fuori, così.

L'abolizione della schiavitù, come miccia che accende gli animi di due modi di visioni contrapposte tra Nord e Sud, è solo l'anticamera di una politica selvaggia e poco risoluta. È grazie ad un Presidente, Lincoln, che, con una grande arte della retorica e tanto carisma, la fine della guerra giunge: dopo aver però impoverito e decimato la popolazione.
La morte che lo colpirà alle spalle quella sera al teatro sarà solo un modo per consegnarlo anticipatamente e definitivamente alla storia.

Se c'è una cosa che Spielberg ama è quella di raccontare storie di oppressione. Gli piace sviscerare, descrivere e consegnare al pubblico mastodontici prodotti di bravura tecnica ma melensi, infarciti di un moralismo sfrontato e inutilmente strappalacrime. La straordinaria bravura del regista la si è vista però in opere dal tema del tutto differente o quantomeno maggiormente libere dagli schemi imposti dal commercio. Fu il caso di un capolavoro come Lo Squalo, che sembra ormai lontano anni luce dal suo modo di trattare il cinema. Ora, invece, ci troviamo di fronte ad un regista in parte compromesso dalle sue stesse produzioni. E parliamo della sua collaborazione disastrosa con la LucasFilms; sì, mi riferisco al quarto Indiana Jones, ad esempio.

Lincoln è una via di mezzo. È un film riuscito dal punto di vista tecnico, con una regia molto bella e una fotografia eccelsa, ma deviante per contenuti.
Come scrivevo poco prima, la vita del presidente è solo un modo per fare della parola la vera protagonista.
Anzitutto usata come vettore per cedere al potere. I dialoghi sono incentrati ad arte sul come raggiungere determinati obiettivi, al di là del bene e del male. Il messaggio è ancora una volta: il bene emerge solo con il compromesso di personaggi carismatici. Il problema del film dunque non è l'essere solo troppo prolisso, quanto il paternalismo che ancora una volta Spielberg sceglie come strumento per veicolare nel suo cinema una stucchevole sensibilità.

Il personaggio Lincoln è rappresentato come un anello di congiunzione tra ciò che è in quel momento storico il "diverso" e ciò che lo combatte: il male, il villain di turno, l'ideologia economica sudista. Perchè per Spielberg il tutto si riduce ad un male radicato nella natura umana e dettato dal cinico progressismo scientifico, si potrebbe persino parlare di una fobia per il progresso.
Sorge eccentrico e assolutamente fuori luogo ma funzionale al discorso il paragone con un altro modo di rappresentare il male, quello di Django in Tarantino.
Mentre Spielberg filma la cattiveria degli antagonisti, affidandosi alla "scusa" degli eventi storici, perchè in loro prevarica quel determinato tipo di natura, in Tarantino il cattivo è il più delle volte l'imbecille di turno o spinto da motivazioni contingenti.
La catarsi finale è però illuminante: mentre nel primo il nemico scende a compromessi con la morale vincitrice non rinunciando però alla sua ideologia, nel secondo si muore in circostanze pressoché dettate dalla stessa volontà votata alla crudeltà e puerili, appunto.

Assodata la politica dell'Academy, il film ruberà premi ad altre opere che hanno come neo quello di raccontare storie anti convenzionali per un america da sempre incoerente.
L'unica grande merito che emerge è però Daniel Day Lewis, che a questo punto spero vinca la terza e più che mai meritata statuina.

marcodemitri®

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