martedì 14 maggio 2013

Mi rifaccio vivo [Recensione]


Un fremito.
Leggero.
Ma pur sempre un fremito.



La banalità della commedia italiana moderna, perpetuata da produttori che, alla vivacità della storia preferiscono la cartamoneta dei ricavi, talvolta si scontra con l'intelligenza di piccole opere intrise della sempre più evanescente magia del cinema.

Biagio Bianchetti (Pasquale Petrolo) è un imprenditore con un perenne complesso di inferiorità per il suo acerrimo nemico fin dall'infanzia: Ottone Di Valerio (Neri Marcorè). La competizione che Biagio ha nei confronti di quest'ultimo è tale che lo porta a diverse sconfitte.
Un giorno Ottone, apparentemente intenzionato a porre fine a questo gioco perverso, gli propone un affare, che alla fine si rivela un inganno.
La beffa spinge Biagio al suicidio.
Ma una volta giunto nell'altro mondo, Rubini, nei panni di uno spirito, gli concede la possibilità di ritornare in vita sotto false vesti.
E così reincarnato nei panni di Dennis Rufino (Emilio Solfrizzi), un brillante manager a cui Ottone ha affidato le sorti della sua azienda, Biagio riprende da dove aveva terminato.
Con l'intenzione stavolta di rovinare la vita ad Ottone e vendicarsi, dunque.

Che ci volesse un Sergio Rubini a ravvivare questo scenario appare non scontato ma plateale. Perché nel suo ultimo film, mi rifaccio vivo, impianta una sceneggiatura degna di un film alleniano - con tanto di riferimento a Scoop - non solo: astutamente mette in scena una storia romanzata con il politicamente scorretto e i luoghi comuni della tragicommedia italiana e che trae ispirazione dalla cronaca.

Nel complesso è un'opera brillante che dimostra ancora una volta la grande cultura del mediterraneo Rubini.
Facendo leva sul suo amore per il teatro e la formazione politica, ricama uno script con omaggi alla filosofia pirandelliana: la teoria del doppio e dello scambio di ruoli tra eroe positivo e negativo in un gioco allo specchio.
Il regista è il demiurgo che, con simpatia ed ironia, non risparmia critiche.
"La cosa positiva è che dopo la morte non c'è nulla" cita il protagonista prima di vivere l'esperienza ultraterrena con una connotazione più reale della realtà inscenata.
La metafisica costruita da Rubini è infatti realista e comunista, come finirà per rivelare il protagonista ad un gruppo di ecclesiastici.
Un sassolino nella scarpa che Rubini si toglie con soddisfazione, ricordando il Moretti più scanzonato.
Atto dopo atto il regista confonde lo spettatore modificando la caratterizzazione dei suoi protagonisti; è un'ironica cornice in cui emerge con forza la scissione tra buono e cattivo in un continuo ossimoro con uno sfondo di subdolo sberleffo alla filosofia orientale.
Ma uno dei pregi del film è anche quello di non scadere mai nel moralismo; la chiave di volta è incastrata in un'architrave in cui l'elemento centrale della storia, Il sucidio dell'imprenditore, è solo un pretesto per imporre l'idea di determinismo che il regista coglie dalla vita.
Il "Tutti hanno diritto ad una seconda possibilità" funziona solo se si ha una consapevole presa di coscienza delle proprie potenzialità in un darwinismo sociale dal motto "non giudicare mai solo la superficie".
Ed in virtù di ciò tutti i personaggi principali nascondono un lato negativo, oscuro e a volte anche perverso, in un impeccabile abito perfetto, tra l'altro
È uno schema che non annoia o cede al ciellino paternalismo, anzi, diverte, fa riflettere e, nella demenzialità, strappa qualche risata.

Uno script ben recitato, anche.
L'istrionico Neri Marcorè, vestito da rampollo dell'alta borghesia imprenditoriale, ricama batutta dopo battuta un personaggio credibile e divertente, Solfrizzi interpreta molto bene il ruolo della vittima ed infine il dissacrante Lillo che appesi i panni della Iena e separato dalla controparte Greg, sembra trovarsi a suo agio in quelle di uno straordinario inetto.

Come dicevo all'inizio è solo un fremito.
Forse troppo leggero per smuovere un corpo.
Che appare ancora intorpidito.

"Eppur si muove", però.


marcodemitri®

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