venerdì 20 febbraio 2015

BIRDMAN Vs. BOYHOOD [PRE OSCAR 2015]

Che io mi ricordi era dal 1997 che la corsa per gli oscar non appariva così telefonata e poco entusiasmante. L'undicesima statuetta ricevuta da Titanic fu solo l'ennesimo sbadiglio di una serata noiosa e scontata. A differenza del 2002 quando Martin Scorsese nascose bene l'odio per l'Academy che non si degnò di premiarlo per il suo vigoroso Gangs of New York.

Ah, l'academy e Scorsese, un rapporto di trolling. 
Fortuna che c'è DiCaprio, ora. Altrimenti sai che noia. 

A bucare lo schermo, quest'anno, sono due pellicole particolarmente accattivanti: Boyhood e Birdman
I principali riferimenti di chi vuole cimentarsi in quella mistura di cinema d'autore e d'intrattenimento. 

Boyhood.



Il regista della soffice e melodrammatica trilogia Before Sunset, Richard Linklater, torna con il suo attore feticcio, il freddo Ethan Hawke da sempre schivo verso il cinema più mestierante, in un dramma sulla crescita. 

Cosa ha di bello. 
Girato in dodici anni, la storia segue la crescita di Ellar Coltrane. La trovata geniale è servita. Non solo. È quella profonda leggerezza nel modo di raccontare a conquistarti. 
In una atmosfera di autentica ricerca di verosimiglianza. 
(Beccati questo Von Trier e il tuo dogma95 radical chic) 

Perché storco il naso.
Apparentemente è una storia comune, che sa di già visto. Colpisce più per il modo in cui è raccontata che per la storia in sé. Ma attenzione a non sottovalutare la sceneggiatura. I personaggi sono ben curati nel loro essere macchiette di una provincia gretta americana, da lasciarci intenerire e imbestialire. 

Birdman


Su Birdman si può dire di tutto. Ed è già stato detto molto. Si tratta di un'opera metateatrale, di quelle che  richiamano Truffaut, di quelle che sono state fatte da Fellini. Iñarittu si è cimentato nel rappresentare una collezione di personaggi depressi, di personaggi abbandonati a se stessi, che cercano in tutti i modi di uscir fuori dal loro canovaccio. Sono solo figli di un cinema rocambolesco e vuoto, non possono aspirare ad essere personaggi a tutto tondo. Eppure Michael Keaton ci prova. In una New York poetica, una dichiarazione d'amore al cinema, al teatro, e all'essere parte di una società venuta al denaro.  

Cosa ha di bello. 
Ovviamente la regia. Quei (falsi) piani sequenza, girati d'un fiato, che saltano e si spostano con maestria, con forza e velocità, lasciano d'incanto e carichi d'ansia. È Hitchcock, in un richiamo a quel nodo alla gola diretto in una stanza e lanciato in un finale al cardiopalma. L'anno scorso abbiamo avuto Cuaron e quest'anno Iñarittu, sono gli anni d'oro del piano sequenza. 

Perché storco il naso.
In teoria per nulla, apparentemente. Il problema è che se si prova a scavare oltre quelle prove, ottime, emergono difetti abbastanza vistosi. Si racconta di depressione, della vuotezza dell'uomo di successo, la sua frivolezza negli affetti. Ed è questo essere tutto accennato a dar problemi. Per far volare il film e non annoiare sembra essersi venduto al pubblico, impressionandolo con una prova estetica di bravura.
Non son più i tempi della complessità di unTruffaut e un film come Birdman è lì a ricordarcelo.


marcodemitri®

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