Dissi.
A dire il vero ci volle un bel po’ prima di trovare il coraggio. Eravamo insieme da poco e non mi dispiaceva il nostro rapporto.
Il sabato sera al Sette di Sette, la domenica al Misvago.
Il sabato sera della settimana successiva al Bambù. Poi al Womb.
La domenica al Misvago e poi al Cagliostro.
E così via: corsi e ricorsi e via trinchese.
In generale ci alternavamo in base al tempo e alla gente, non ci piaceva dare l’idea di una coppia fossilizzata nei soliti locali. “Tendenza” era il nostro cognome.
Ma da salentino core presciatu - antica tradizione di maschi meridionali – dovevo confessarglielo; dovevo dire alla fimmena quello che qualche mese dopo sarebbe successo.
Anche se non facevo di cognome Dovere.
Marco devi dirglielo, su caccia le palle e confessa quello che stai per fare.L’occasione si presentò fresca e limpida una sera, seduti al Raphael durante uno spritz e un’aspirazione con conseguente espressione sofisticata e sguardo fascinoso ad una sigaretta elettronica, in quel momento particolarmente amarcord: le confessai tutto.
Ma proprio tutto.
“Marti… Marti…”
“Che c’è? Sto facendo un selfie!”
“Marti devo dirti una cosa.”
“Che è successo?”
Posò il telefono sul tavolino. Il volto si fece serio tra le capriole di fumo sintetico.
“Aim going in de unaited steits!”
Glielo dissi, così, all’inglese.
“Cene?”
“Ich gehe in die USA!”
Glielo dissi, così, in tedesco.
“Ma che stai passando? Ah? Parla come mangi!”
“aokfmaofmaoègnag”
Glielo dissi abbuffandomi.
“Vabbene meh, non so proprio cosa ti sta succedendo amò.”
Le raccontai per filo e per segno il progetto. Quello che tra ottobre e novembre avrei dovuto fare. Lei mi guardava, le pupille dilatate, le labbra all’ingiù, il mascara iniziava a colare. Le lacrime a rigarle il volto.
“Non ti preoccupare tornerò dall’America. Tornerò.”
“No, amò. No. Ho solo paura di una cosa… una sola.”
“Dimmi, Marti, dimmi. Parla.”
“Ma nu n’è ca ha scire all’aeroportu delli baresi, no?”
"Mysia."
“Allora amò vai pure, diffondi il nome del Salentoh nel mondo!”
E iniziò così la scoperta del nuovo continente dove la parola Lecce la usano gli ispanici per chiedere “latte”.
Lo scrivo perché è una cosa che ti fa rimanere male.
Ma proprio de cazzu.
Per il resto è stato Il viaggio che sogni da quando sei un bambino.
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27 ottobre – 17 novembre.
Prima di iniziare vi spiego l’itinerario.
Il reportage si divide in due parti: Costa Est e Costa Ovest.
Di cui:
11 giorni a New York
4 a San Francisco.
1 al Big Sur.
6 a Los Angeles.
1 a Las Vegas.
Nello specifico:
11 giorni ospite da un amico a New York.
4 a San Francisco con visita ad Alcatraz.
Poi con l’auto diretto fino a Los Angeles con pernottamento a metà del viaggio al Big Sur.
Infine ultimi giorni a Los Angeles e uno a Las Vegas.
Un viaggio diviso in tre parti.
Con tre itinerari differenti e due coste da visitare.
Ci sono da dire diverse cose su questo viaggio. Molte le leggerete altre ve le scrivo qui:
Le foto sono state realizzate in tutto o in parte da un amico, un compagno di viaggio, che ringrazio. Il mio telefono ha sofferto di gravi ammaccature sul vetro della fotocamera e non ha retto il ritmo, l'emozione, l'enfasi del viaggio.
Questo è un reportage, come in molti avranno capito, ironico ma tremendamente vero. Ho solo trattato l'argomento immergendomi nei panni di un salentino medio.
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Si Parte!! Vrommm! |
Il Boing dell’Alitalia, modello A330, indicato da un ragazzo incontrato in agenzia viaggi come “enormeeeee ete”, si presenta grande in effetti. In dotazione hai cuffie, cuscino, coperta, il tutto verde e bianco per rispettare i colori della compagnia. E, per rendere il viaggio più comodo, si aggiunge un collegamento gratuito, accessibile tramite schermo touch incastonato sul sedile di fronte a te, ad una collezione di documentari e film e telefilm e musica gratuiti. Per un viaggio che dura nove ore, che ti costringe a condividere aria e spazio con persone sconosciute e, se soffri di timidezza, ti impedisce persino di alzarti senza imbarazzo, l’asocialità multimediale è la scelta migliore. Un collegamento touch, poi: l’asocialità 2.0.
La visuale fuori è monotona, una distesa di nuvole bianche e soffici. Non è ancora il momento. E così provi a dormire, avvolto dalla coperta verde e bianca. Ti senti coccolato, sì.
Otto ore dopo.
La mano tremante, vigorosamente ancorata al bracciolo, lo sguardo rapito dalla visuale ovale del finestrino alla tua sinistra. Non vuoi perderti il momento esatto, il primo momento in cui i grattacieli desiderati punzecchiano la visuale.
Si intravedono. Sono lì, non ancora alti e imponenti. Non ancora.
L’aereo inizia a virare, si abbassa di quota e si avvicina, il sole si riflette sugli specchi di cristallo. Muovi le dita, metti Bruce Springsteen e dentro di te urli “Boooooorn in the iuuuuesseiiiii!”
È una sensazione magnifica, la prima sensazione americana.
Ddhadissi, è la parola giusta.
Attesi il via dal personale di bordo prima di riaccendere il telefono e mandare i vari messaggi contrattati preliminarmente con i miei. Il cellulare anche se rimasto spento per circa dieci ore, era caldo. E io conoscevo il motivo. Avevo specificato, oralmente e per iscritto, che sarei partito alle 11 e 30 da Roma e sarei arrivato alle 17 e 30 ora locale a New York – quache minuto prima o dopo poco importa - . Appena scattato quel 17 e 31 partirono le chiamate; l’ansia la sentivi anche a mille mila chilometri.
Le interviste a Quarto Grado.
Mia madre: mmh, è morto per attacco terroristico.
Mio padre: mmh, avrà infastidito qualche gang.
Mia nonna: ma ha mangiatu lu piccinnu?
A mia madre avevo tra l’altro specificato “vedi che ci sono sei ore di fuso orario tra Lecce e New York”. Mi rispose “ah, quindi qui è giorno e lì è notte?”. “Eh, dipende, no?”. Ostinata continuò “ma se a Lecce è estate lì è inverno?”. “No, mamma, siamo sopra l’equatore quindi stessa stagione.” “Lecce è sempre calda. Lecce nostra”, “vabbè”.
Poi passai a mio padre.
“Papà parto”.
“Sì, i soldi ce li hai?”
“No, guarda, parto senza soldi.”
“Come senza soldi? E come fai a vivere?”
Lo lasciai sulle spine.
Infine toccò a mia nonna. Fu uno scoglio duro. Molto duro.
“Ma marcu a du sta bai?”
“In America, nonna.”
“Statte attentu nu te pigghi l'eRbola, ddhai comu se chiama.”
“Tranquilla, nonna!”
Qualche secondo di riflessione.
Mi guardò.
“Mmh…”
Capii subito dove voleva arrivare.
Ruotai le pupille e chiesi, quasi sbuffando.
“Dimmi nonna, dimmi…”
“Ma.. a dhai..”
“Siii?”
“Mangi, no?
“No, nonna, li non mangiano-“
“A sorte mia, speramu lu signore cu no torni deperitu.”
Ma con un “Non vi preoccupate, sono arrivato sano e salvo” me la sbrigai.
Airport, JFK.
Trasportato su un nastro meccanico, giunsi nell’atrio principale dell’aeroporto, il JFK, John Fitzgerald Kennedy, come una via a Trepuzzi.
Mi chiesi subito se ci fosse nella Grande Mela via Trepuzzi, senza successo; ma di questo ne parleremo dopo, però.
La struttura è addobbata di bandiere a stelle e strisce, uguali a quelle che puoi trovare da Elio Zema, e poliziotti.
Ma fatto ancora più impressionante è essere accolti da un tizio di colore, alto e grosso che non mi vende accendini. Non prendetemi per un provinciale, ma se sei abituato a vederli in giro per la città ad offrirti, insistendo, di comprare qualcosa, difficilmente non resti basito di fronte un uomo enorme, con il tono di voce di Balotelli, che ti perquisisce. Le cose alla merza, direbbe qualche anziano in Piazza S.Oronzo.
C’è un tizio che dirige le file, e mi obbliga ad inserirmi ordinatamente in una.
Che, lasciatemelo dire, è qualcosa di noioso perché le uniche file che conosco sono quelle del trenino di Capodanno. Mentre così disposto sembro una sezione di un serpente, un lungo serpente. E a me i serpenti fanno paura.
“Come on, fast, fast”.
Giungo ad una cassa, una cabina con un pelatone che mi scruta, prende poi le mie impronte digitali alché chiedo “ce l’ho sull’iPhone” ma dopo avermi guardato male, molto male, mi dice di andare via.
Prendo le valigie e sì, ora posso dirlo: sono negli Stati Uniti D’America.
A Martina scrissi “ho sempre sognato di andare negli States e ora si è realizzato questo sogno”.
Lei mi rispose “passa da Tiffany che mi compri qualcosa.”
New York, Primi giorni.
A New York è tutto grande, enorme. I grattacieli, le auto, le persone. Sono tutti dei Paolone giganti con i tatuaggi e con il gippone. Non hai tempo per riflettere su quanto tu sia piccolo. Lasciare Lecce, la capitale del sole, del mare e del vento non è stato facile. E lo ripeto a me stesso, illuminato da una fioca luce di un treno che attraversa Brooklyn.
Le strade non hanno nomi, o meglio: sono divise per numeri. Si incrociano in vie verticali e orizzontali, formando precisi quadrati e rettangoli. I nomi delle vie, in realtà, ci sono, ma non si usano molto.
La casa del mio amico dista più di quarantacinque minuti da Times Square. O circa quindici fermate di metro. Non ho molto tempo per disfare i miei bagagli, ho solo quello sufficiente per lavarmi e capire dove sono.
A New York Marco, quante volte te lo devo ripetere?
Lo so, ma fa più effetto figo chiedersi nel mezzo di un reportage dove sei.
Ciao, me ne vado.
*Indosso occhialino e mi do un tono da professore
New York è divisa in cinque distretti Manhattan, Bronx, Queens, Brooklyn e Staten Island. Dove abito io è la zona più popolosa, la più multiculturale. Se fosse una città autonoma sarebbe tra le più grandi degli States insieme Los Angeles e Chicago.
Ok, ok.
Detto questo sono arrivato a Times Square.
Non fa molto freddo nel cuore di Manhattan, nel cuore del centro turistico per eccellenza.
C’è un miscuglio di razze, gente che viene da diverse parti del mondo. Le più disparate. Esplode di colori misti a luci ed eccitazione. I selfie sono più delle persone e vengono catturati distanziando il telefono con un braccio di alluminio. E poi sorrisi a denti stretti, e gli occhi contratti. È magico. Sono le foto che tu devi fare se ti trovi in questi posti.
Da noi è il mare ad attirare i turisti.
Qui sono i grattacieli a rilassare, le luci.
Mi fermo a mangiare il mio primo hamburger in una catena che ritroverò spesso.
Applebee’s, non male ma non ancora il massimo.
Apprendo il concetto di mancia. I camerieri ti rilasciano uno scontrino, con il "tip", cioè la mancia. In pratica guadagnano solo su quello e tu, che i primi tempi non sai come funziona, gli lasci sempre il massimo. Essa è infatti calcolata in una percentuale dallo 0 (servizio pessimo) al 20 (eccellente). Ma non conoscendo tutto questo, mentre loro sono lì a fissarti e a esclamarti un "cough cough", ti fai prendere dall'ansia e gli lascia un sacco di soldi.
Non puoi fare come ai parcheggiatori abusivi ai quali puoi dare anche dieci centesimi e al massimo ritrovarti con la macchina rigata per metà, no: devi lasciare un prezzo stabilito in quelle variabili.
Il mio primo panino mi costò circa 20 dollari.
UN PANINO.
“Martina, sono nel letto. Provo a dormire ma sono troppo emozionato.
Pensa che qui fanno le file anche per mangiare gli Hot Dog. Li vedi uno dietro l’altro, fanno impressione. Ho fatto qualche selfie ma non mi hai ancora commentato. Sì, ho trovato anche Tiffany. Ma non ti dico cos’altro in caso mi lasci al verde.
Per il resto ‘uttappost. Mi raccomando salutami tutti. Un kiss.”
Il letto è morbido, forse troppo. Il mio amico mi ha sistemato in una stanza che usa affittare. Per quel poco che ho visto, non tengono molto alle formalità e all’igiene. C’è un centimetro di polvere. E non hanno il bidet.
Un “mah” è l’ultima esclamazione che intono nel buio, e poi mi addormento. Stanco e un po’ disorientato per via del Jet Lag.
I giorni trascorrono.
Provi ad immaginare a come sarebbe bello se questi new yorkesi si fermassero un attimo, aprissero google maps e guardassero le foto del nostro Salento. Il mare cristallino e il cibo salutare. La nonna che ti imbottisce di salse e pasta e se non finisci di mangiare si offende. E continua a riempirti il piatto. È più o meno come qui in un ristorante con l’insegna luminosa e le hostess pettorute e scoperte. Loro ti riempiono il bicchiere di birra e ti portano un piatto enorme pieno di carne. E sorridono sempre e ti chiedono come va. Alla fine vogliono la mancia, e sì, è un sistema diverso ma è pur sempre uno scambio di sorrisi in cambio di qualcosa. Che sia la nonna a riempirti il piatto per vederti ingrassare o la tizia orientale in latex per sentirsi la tasca piena. Io comunque mangio della carne della Louisiana. È piccante, molto piccante ed è glassata di salsa barbecue. È buona e il gusto lo senti tutto, non come quella del McDonalds a Lecce.
Ma non riesco a finire di mangiare, ho la pancia gonfia, pago e vado via.
A Martina scrivo “New York è una favola, dillo alla nonna e dille anche di non chiamarmi la mattina perché col fuso orario qui è notte”. Glielo scrivo a caratteri cubitali per meglio evidenziare il concetto. Avrà capito? Non lo so ma passo avanti lo stesso.
Vedo questo:
Rispondo con questo:
Non voglio aggiungere altro sulla questione caffè. Le persone che non conoscono il caffè Quarta, il caffè in Ghiaccio, non capiscono nulla. I pasticciotti. Madò, non voglio proprio discutere di questo.
Tante volte mi sono trovato ad affrontare il discorso, ci sono alcuni che ti guardano stralunati. Altri ti rispondono che il caffè in ghiaccio puoi trovarlo da dunkin' donuts.
(tanto per intenderci è la catena che vende queste leccornie:
)
Però non so perchè il caffè Quarta non lo vendono in tutto il mondo. In fondo è: il miglior caffè del mondo. Ah.
“David Letterman, qui fanno David Letterman”, sento urlare alle mie spalle. Sono una coppia di italiani in vacanza di nozze. E per fortuna che me lo urlano altrimenti non avrei mai immaginato che il teatro Late Night fosse quello del caro David.
Ma non mi interessa più di tanto. Apro google e cerco il pub dov’è iniziato il fenomeno Alla fine arriva Mamma (How I Met Your Mother, secondo i torrent).
Non è molto lontano e mi ci dirigo spedito.
Eccolo.
Foto di rito e riprendo a passeggiare, il sole sopra di me, io con una tracolla e uno stile che urla “sono italiano, meridionale.”
Top Beggione, come direbbero nella mia città.
Per pranzo questa volta scelgo del cibo di strada. In molti mi consigliano un chioschetto stazionato in una bella posizione. È fatiscente e un pugno nell’occhio di fronte alle immense strutture di metallo. Chiedo un piatto di carne e insalata e riso, me lo servono velocemente. Poi cerco di approfondire la loro storia perché sono interessato. Mi dicono “siamo qui da diverso tempo”, “New York è molto costosa ma noi riusciamo a pagare l’affitto. Non ci lamentiamo dato che viviamo nel cuore commerciale della città.” In effetti sono un po’ ovunque e non sono ben visti dagli altri camioncini perché sono riusciti ad accaparrarsi tanti clienti. Sono i migliori, in pratica.
Per un prezzo assolutamente onesto.
Un po' come quel marketing da strada che Massimo del PD al Mercato dei fiori di Lecce attuava con tanto amore.
"Scusi il mio panino è pronto?"
"Ce buei?"
"... dico.. il mio panino è pronto?"
"C'ha pijatu?"
"Un PD..."
"Un attimo."
Prende un megafono e urla:
"PORCUDDDIU se chiama!"
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Dai, è carino in fin dei conti |
“Cos’è questo schifo?” mi risponde Martina quando vede la foto. Glielo spiego.
“Non è che mi ritorni obeso, no? Che poi non ti voglio.”
Le dico di non preoccuparsi.
E lo ripeto anche a me stesso.
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Quista la mandu allu cumpare miu! Me face murire stu barra! |
Ora sono in viaggio verso Ellis Island e Statua della Libertà.
A bordo di un grosso battello, subito dopo aver visitato la Statua Della Libertà e pagato un extra, giungi su questa isola. Non molto grande. La prima isola, la prima terra ferma, la prima meta di un immigrato. Nel Padrino Parte II è l’isola dove Robert De Niro approda prima di tutti, dove gli fanno i controlli. E io sono nell’atrio ora, quello centrale. C’è un caldo e un silenzio assordante. Le luci si riflettono sul pavimento lucido. È spettrale e commovente l’atmosfera. Pensare che qui, in quest’area giungevano coloro che sognavano la libertà.
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sembra l'entrata dell'Hotel di Shining |
L'atrio è diviso in tante stanze ognuna delle quali aveva una destinazione d'uso. C’era quella con i dottori per curare le malattie, quella per lavarsi.
Erano ammassati i primi visitatori in dei letti che ricordano gli orfanotrofi.
Tanti poveri sventurati sono giunti qui mossi dall’idea di “libertà”, mi fa stare male.
Cerco di rimanere il più lungo possibile per sentire quel silenzio assordante.
Ma poi mi viene fame e sono costretto a cercare qualcosa da mangiare.
Il solito, grazie.
Hamburger e patatine?
Ovvio.
La statua della Libertà è tutto sommato piccola. Molto piccola. Si trova su un'isola anch'essa piccola e per accedervi non ci vuole molto, superati i soliti controlli.
Mi diverto a guardare i piccioni che volano da una parte all'altra e faccio qualche foto. Poi penso al simbolo del nostro Salento.
La statua di Manuela Arcuri.
L'unica differenza è che quella puoi toccarla, palparle tette e culo si fa per buon auspicio, la Statua della Libertà no.
Anzi: t'ammazzano con i cecchini.
Flash, sono gli ultimi giorni.
Ho deciso di andare oltre New York: sono su un bus diretto per Washington.
Le strade statali tagliano il paese ordinatamente. Non attraversano le città. È tutto ordinato, disposto a tavolino che a volte mi chiedo come sia possibile.Pulizia e precisione anche nella guida. Già la guida.C’è una guida, che parla italiano con un leggero accento americano.Non guarda mai nessuno in faccia, guarda in alto: a me pare per eludere lo sguardo e non sentirsi in colpa per eventuali errori di pronuncia. O perché va a memoria. Sarò circa il milionesimo italiano suo cliente.
Il viaggio procede per un bel po' e mentre gli altri dormono io ho gli occhi puntati sui paesaggi.
Nel Delaware la boscaglia macchiata di rosso autunnale, appare noiosa.
Ma è comunque uno spettacolo.
Come avevo sempre sognato, come avevo sempre visto nei film, con i poliziotti con l'auto puntata sulla strada e le ciambelle sul cruscotto.
Pronto?
Mamma!
Ehi, Marco mio. Come stai?
Tutt..
Come stai? Sta facendo freddo?
Sì. Cioè non ta..
Copriti bene. Mannaggia. Ma lì è giorno o notte?
No. È gior..
Madò… ma sta mangi?
Click.
Ora mi ricordo perché non sento molto i miei.
Washington profuma di finto. L'idea è quella di una grande città europea costruita sulla falsa riga dei monumenti del vecchio continente. Gli americani furono i primi cinesi, pensi subito appena arrivi. Il Campidoglio, la Casa Bianca, i palazzi federali, il tutto rievoca uno stile copiato pedissequamente anche nei dettagli più insignificanti. Ma a quanto pare i primi statunitensi percepirono fin da subito gli errori dell’Ancient regime e cercarono di non ripeterli. La storia della generale Washington insegna.
Faccio qualche foto ricordo alla sede dell’FBI, cerco Mulder e Scully ma niente. Continuo con i vari monumenti, tra cui gli altari dedicati alle vittime delle guerre in Vietnam e Corea del Sud.
La città di Washington mi lascia un qualcosa di amaro e dolce allo stesso tempo, mi emoziona e mi disturba. Il tempo trascorre veloce e siamo di nuovo ad un grande Autogrillo, diretti a New York.
Si torna a casa.
Ma no, casa tua ha il sole e il mare e il…
Sì, basta però.
La differenza tra Europa e Stati Uniti la percepisci anche dalle piccole cose. Durante il tragitto la guida ti spiega come funzionano le autostrade, ti indica i vari edifici sullo sfondo e ti racconta qualche aneddoto. Non ci sono grandi monumenti e avverti una sensazione strana addosso: li prendi quasi per patetici.
Questo è il ponte sotterraneo di New York costruito durante il New Deal, il ragazzo ti racconta del ponte. E tu sei lì a far foto.
Il tragitto termina, lascio la mancia alla guida, che non chiede espressamente ma ce lo fa capire.
Lo saluto e vado via, inghiottito nuovamente dalla città.
È sera inoltrata e il fumo dai tombini esce gonfio, a contribuire a regalare ancor più fascino ad una metropoli decadente.
Lecce mi manca. La più bella città del mondo mi manca. Qui fa freddo e non c’è il mare. Le persone sono gentili e ordinate. Non puoi sgarrare.
Tipo l’altro giorno entro in uno Starbucks e, la prima cassa che trovo mi ci infilo. Oh, che senso ha stare uno dietro l’altro. Ma non faccio in tempo ad ordinare che una ragazza con gli occhi a mandorla della fila accanto mi urla “torna indietro e rispetta la fila”. Che modi. Nella Lecce mia ‘ste cose non succedono. Se sei una persona importante e hai la compagnia giusta mica stanno li a rimproverarti.
Però ci sono affezionato a Sturbacks. Sono più le ore che trascorro in queste caffetterie che a girare. In pratica, invece di stare in piedi al bancone ad aspettare il tuo caffè, paghi e ti siedi al tavolino. Sei circondato da persone di tutte le età, hai il collegamento wifi e puoi mettere in carica il tuo telefono. Di solito sono costruite in punti particolari del quartiere, in modo da avere una visuale molto suggestiva del traffico. E poi la cosa che mi piace è vedere il mio nome sul bicchiere del mio cappuccino. Non è cosa da niente, eh.
Ponte di Brooklyn.
A quanto pare è stato il primo ponte al mondo ad essere stato costruito interamente in acciaio. Sarà. Ma, oltre ad essere percorso da gente folle in bicicletta, uno per poco non m'ammazzava perché sostavo sulla sua corsia (quando mai le bici hanno le corsie, su un ponte poi). A me sincerametne piace di più quello di Torre Chianca sul Bacino. Almeno lì ti metti e hai sole e mare di fronte.
Mi piacerebbe portare questi new yorkesi da me, così per farli abbronzare un po'.
Empire State Building.
Un edificio su cui si arrampicò uno scimpanze, è così che me lo raccontano.
Se visto da lontano assomiglia al grattacielo di Lecce senza luci.
Non scherzo.
Suggestivo per le visuali che ti offre, un po' diverse.
Diurna.
Notturna.
Però troppi scalini, troppi ascensori. Salgono a velocità supersonica.
Dopo un po' non senti più i piedi, soffri di mal di camminare e hai una voglia di uccidere tutti.
Menomale che arrivò il giorno tanto ambito, quello per cui avevo organizzato il viaggio in questo periodo:
Halloween.
Martina oggi faccio tardi, scrivo, non ti arrabbiare, poi ti spiego.
Non ottengo risposta.
Le passerà appena le dirò che le ho fatto diversi regali, penso.
O spero.
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Guarda Marco, ho addobbato per Halloween - Mamma. |
Non posso fare presto stasera perché è il 31 ottobre. La “vigilia” del giorno dei morti. In Italia, a Lecce, si prepara il vestito nero da indossare il giorno dopo per andare al cimitero, qui, negli States, il costume da indossare per far baldoria la notte. Perché è Halloween. Il giorno in cui i morti girovagano sulla terra, la notte in cui i morti riprendono vita.
Negli Stati Uniti si ha quindi una routine, la gente compra zucche, le intaglia e ci mette dentro una candela. Secondo la leggenda il culto deriva da un certo Jack O’lantern, un uomo senza scrupoli che riuscì a prendere in giro persino il Diavolo. Così quest’ultimo non volendolo nell’Inferno lo abbandonò nel limbo con un tizzone ardente. Trasformato in una lanterna tramite una rapa e infine una zucca.
In realtà questa è una tradizione che discende da un culto pagano romano, che fu in seguito rubato dagli inglesi e diffuso sui territori anglosassoni con il marketing. Avete presente il babbo natale con la coca cola? ‘Na cosa del genere.
Sulle porte delle case ci sono zucche arancioni, grandi e piccole. Bambini che scorrazzano indossando maschere e ragazzi mascherati con pugnali e accette finte. L’atmosfera ha un sapore anni ’80 e una leggera, leggerissima nebbia aleggia sulle strade. Ho paura a momenti, paura di divertirmi troppo.
Di commuovermi per quello che vedo.
Martina dopo un po’ mi scrive.
“Ciao. Sono a casa di Stefano con Mario e Antonio. Siamo stati invitati da Maristella per una festa a casa sua. Anche io faccio tardi.”
Mario? Stefano? Antonio? E chi cazzo sono? Mi fido dai, so che la mia Martina è una vera fimmena, una del sud attaccata al proprio uomo core preciatu.
Le rispondo “non ti divertire troppo”.
Ottengo solo un “Tiffany” come risposta.
Stasera dunque sono invitato ad mega party e poi andrò in giro per la città con altri ragazzi incontrati. Ma chiedono espressamente una maschera e un vestito. Non ho la più pallida idea di cosa fare e chiedo consiglio. Mi indirizzano verso una grande catena di negozi di vestiti in maschera. Ed è qui che trovo il travestimento perfetto: una maschera in silicone di Jason Voorhees.
Che cosa meravigliosa.
Flash.
“Italiano? Prendi birra!”
“Sì, aye.”
(X2)
Gioco a flip pong, sento urla e puzza di sudore. Un ragazzo accanto a me è un dinosauro. Sulla parete bianca della casa trasmettono l’NBA.
Intorno a me vedo strisce e occhi rossi. Non sento freddo. La maschera mi riscalda bene.
Flash.
“Dove posso vomit?”
Metropolitana.
Buio.
Non ricordo esattamente cosa sia successo durante la notte, la gente tende ad offrirti tante cose da bere, e tu non puoi rifiutare. La birra costa molto. Ma non ho tempo per riflettere sui postumi della sbronza, sugli hangover.
A cena di un americano, uno DOC.
Martina?
Una casa enorme in stile neoclassico.
Più in la abitò per un certo periodo anche David Letterman poi scappò via perché inseguito dagli Stalker, mi dice mentre sorseggia un Fresco, un cocktail “leggero” di tequila e soda.
È tutto bellissimo, piove anche.
Sono seduto a bere e a guardare il college football, i bambini dell’uomo giocano urlando e girando per casa.
Io anche urlo ma dentro.
Tocco con mano il sogno americano.
Prima di cenare sono andato a fare spesa al centro commerciale. Il più vicino distava circa dieci chilometri.
Appena entro resto colpito da due cose.
Una figa:
Una intera corsia di salse. Di tutti i tipi.
Una spaventosa:
Sì, la birra dei baresi con il logo della Nastro Azzurro.
L'americano medio è un tipo alto e grosso con la pancia tonda. Si aggira per casa stappando tappi di birra o versando vino e altri alcolici. Rutta compiacendosi e poi si scusa. Ha una passione per il barbecue e, mentre da noi "guai a tie se me righi la machina", qui è un "guai a tie se me tocchi lu barbecue".
In fin dei conti sono tipi simpatici, hanno la stessa qualità di battute degne di uno zio.
"Bellazio!".
“Ehi, ciao. Scusa ma mi sono svegliata tardi. Oggi è sabato e sono al Sette di Sette. Tu che fai?”
Le scrivo “Piccola, sono stato a casa di un americano vero a guardare college football e mangiare brisket. Sono a casa, ora. Mi manchi”.
L’uomo nero.
Rientrando a casa, una notte, in lontananza la sagoma di uomo nero. Brooklyn ne è pieno. Cantano e ballano, predicano e sorridono. Sto bene, non ho paura ma come accadde in aeroporto mi fanno una certa impressione vederli così liberi e spensierati.
Insomma quest’uomo alto e grosso e nero, verso mezza notte mi viene in contro. Inizio ad aver paura, Marco adesso verrai rapinato come nei film. Speriamo solo rapinato.
Lui è sempre più vicino, io sono indeciso se scappare via o far finta di essere un duro.
Il tempo trascorre, mezzanotte e uno. E cinquantacinque secondi.
Cinquantasei.
Sette.
Otto.
Have a good night, guy.
Mezzanotte e due.
Co..ome? Grazie.. Thanks.
E sorride.
Io resto allibito.
Nemmeno l’ombra di un borseggio.
La notte mi avvolge e io alzo il passo: domani inizia la seconda parte del viaggio e io non posso perdere tempo.
Il telefono squilla: Martina.
"Pronto?"
"Marco... ti devo dire una cosa."
"La uei 'na dregHer fresca?!"
Riconobbi la voce di Martina.
Spalancai gli occhi impaurito ma mi risultò difficile tenerli aperti troppo a lungo; il sole era talmente forte da violentarmeli.
E così allungai una mano per proteggermi dai suoi raggi.
Avvolto in un alone solare riconobbi la sagoma di Martina, il suo bikini a pois.
"Sì… una birra.. si…"
"Oh ma sta dormi?"
"Sì… no…"
Gli occhiali da sole a specchio riflettevano la mia faccia intontita con la bocca impastata di saliva e il viso bollente.
Martina, con la femminilità che la contraddistingueva, mi posò la birra fredda sulla pelle.
Balzai dallo schienale.
"Ma si scema?!"
"Cussì te mpari cu 'mpanni!"
Ebbi la consapevolezza di aver posato i piedi sulla sabbia, bollente e granulosa.
Sprofondarono.
L'odore di salsedine.
Massì.
Riconobbi Torre Chianca.
"Martina stavo facendo un bellissimo sogno... ero in America!"
"E tie cu 'sta america a ruttu!"
Abituato alla sua acidità feci finta di nulla e continuai a raccontare.
"C'erano Manhattan, le zucche di Halloween, gli Hot Dog. La gente gentile… Mi ero persino ubriacato ad un party stile American Pie!"
"… American Pie gne gne gne…", mi fece il verso divertita.
"E poi… ti avevo fatto un regalino da Tiffany!"
"See! Allora era proprio un sogno!"
Le feci cenno col capo, triste, mentre fissavo l'acqua cristallina.
"Ane meh! Pigghiate 'sta birra!"
Ma vidi due bottiglie di tennent's incastrate nella sabbia. Vuote.
"Marti e quelle?"
Il piercing si rivelò lucente quando lei si voltò per rispondermi.
"Me l'aggiu bevute iou no? Sta tenia na site!"
"Ah.."
Quegli occhi grandi e neri e profondie quella pelle olivastra, praticamente olio extravergine l'estate, con quel tatuaggio poi "paccia per lu Salentu", contraddistinguevano Martina da tante altre.
Benedica, pensai mentre la birra scendeva giù, lungo la gola, donandomi sollievo.
Si sa che le donne salentine sono le migliori del mondo.
“Attentu nu sia te nfuechi!”
E anche un po' rustiche.
Sentivo il richiamo del mare dallo scrosciare delle increspature in piccoli ricci di schiuma.
Ci andai incontro per bagnarmi i piedi.
"Poco poco di pasta al forno la vuoi?"
Il vento soffiava una leggera brezza tanto da non farti sentire il caldo pungente del solleone.
Gli ombrelloni inchiodati sulla spiaggia, con rudimentali ancore, segnavano i confini delle famiglie riunitesi a festa sulla spiaggia.
La sabbia finissima dai granuli sottili.
Le facce compresse in espressioni sofferenti e grondanti sudore.
"Ehi vieni qui che ti presento mia sorella!'
"Ma me l'hai presentata prima!"
"Nono, è un'altra. In famiglia ci siamo dati da fare."
"Ma quante nde tieni?"
Risate grottesche riecheggianti versi animaleschi.
E poi i sorrisi e la felicità per quei momenti, le persone accorse coese in gruppi di urlanti infanti e anziane dalle richieste "ma hai mangiato?"
Poi mi si avvicinò Martina, con una vaschetta di anguria.
"Tieni, prendi un pezzo nah!"
L'odore era buono ma nulla poteva fare con quello della pasta al forno.
"Ehi, non guardare lì, dobbiamo mangiare leggero che è estate. Altrimenti ti cresce la panza e a me piace la tartaruga. Come quella di ChristianNNNA di Uomini&Donne."
"Ma ma ma… voglio un pezzo di.."
"None… tieni!"
E mi passò con una forchettina di plastica un cubo di anguria.
Che cadde sulla mia mano.
"'Ttentu…"
'Ttentu.
E mi svegliai perché qualcosa mi aveva bagnato la mano.
Riconobbi la mia bava.
Riconobbi quel senso di stordimento quando si dorme per poco tempo, scomodi e si intuisce di aver russato.
Dov'ero? Mi chiesi.
Riconobbi le hostess.
Ero seduto su un morbido schienale.
Il rumore vibrante.
Ma certo! ero sul volo per San Francisco.
Della spiaggia solo un sogno offuscato.
Di Martina il ricordo delle ultime parole.
"Marco... ti devo dire una cosa"
Una telefonata interrotta.
La seconda parte di un viaggio.
COME SONO SOPRAVVISSUTO NEGLI STATI UNITI
SENZA CAFFÈ IN GHIACCIO E GUENDALINA
SAN FRANCISCO
[Seconda Parte]
Quando le TV LCD non erano ancora in offerta alLA Carrefour, prima ancora di fare i porci su whatsapp, i televisori con tubo catodico occupava uno spazio importante nel salotto.
Si ergevano voluminosi e talmente ingombrati da impedire alla mamma di posizionare le bomboniere dei millemila parenti sul centrino in merletto regalato al matrimonio dallo zio Carmelo.
Il suo esercito di animaletti e tazzine e cose lì in porcellana.
E ogni giovedì sera, dopo i compiti, noi ragazzi dello zoo delle superiori dai muri imbrattate di graffiti e false promesse, sedevamo sul divano e guardavamo The OC; per commentarlo il giorno dopo, ovviamente.
Scazzottate, abiti firmati, bellocci trentenni spacciati per quindicenni, milf.
Insomma: il sogno americano entrava in casa, sfavillante.
E anche ingombrante e prepotente come quel televisore a tubo catodico che non lasciava spazio al centrino in merletto regalato dallo zio Carmelo.
Eravamo noi i ragazzi europei indelebilmente marchiati con stelle e strisce.
In ansia.
Ero tremendamente in ansia di vedere l'Oceano Pacifico e San Francisco.
La California, la terra del sole e del mare non poi così diversa dal mio Salento, si estendeva lunga e compatta.
Misi le cuffiette e mi sparai la canzone giusta al momento giusto.
"Californiaaaa… Californiaaaaa!"
Se c'è una cosa che resterà impressa oltre l'"anuwaluwei" di Dawson's Creek è questa sigla.
L'aereo virò dolcemente sul lato sinistro, si abbassò di quota e dopo aver librato per diversi minuti, si indirizzò verso l'aeroporto, scendendo con atterraggio perfetto.
Ma nessuno batté le mani.
Nessuno.
Che maleducati, pensai.
Questi americani sono troppo seri.
L'eroporto di San Francisco si presentò totalmente diverso da quello di New York. C'erano più sorrisi e meno sguardi sospetti. Più cappelli da Cowboy e meno da poliziotti.
Sotto i piedi, poi, della soffice moquette.
"Allora Marco sei in California. Calma.
Californiaaaaa…
Basta. Organizzati.
Prima cosa…
sei una cretina?… no, quello no.
Accendi il cellulare e scrivi uno status?
Ecco, sì."
Ma feci il primo errore.
Perché appena tolsi la modalità "uso in aereo" il telefono riprese a squillare.
E vibrò forte, fortissimo. Praticamente un martello pneumatico.
Risposi.
Era mia madre.
"Marcu ma ce fine hai fattu?"
"Mamma ero in…"
"Ca quai été mezzonotte, a du stai?"
"Mamma ero in…"
"Nu squariare mannaggia, nu squariare… A st'ura stai sempre a casa!"
"Mamma ma che cavolo dici.. c'è il fuso…"
"Mo che lo dico a tuo padre vedi che dice!"
Chiusi il telefono.
Poi mi giunse un messaggio.
"Nonna ha chiamato alle ore: 17\17.40\18\28490t40t40tr040949965"
Nonna ha bucato lo spazio - tempo.
Riuscì a phonare gli orologi e ad asciugarli e così ripresi il mio tragitto.
Il sole infiltrava i suoi raggi attraverso le grandi vetrate dell'aeroporto, trafiggendo la struttura in diversi punti.
Camminai per diverso tempo con il trolley finché non raggiunsi l'ingresso e lì, a quel punto, chiesi come raggiungere il centro della città: l'albergo, più precisamente.
Devo dire che iniziai nell'immediato a notare una differenza abissale con NY; le persone erano sì gentili, ma non di quel gentile al limite dello stucchevole.
Ti rispondevano per dovere, abbozzando un sorriso, e poi continuavano il loro lavoro.
Qualunque esso fosse.
Raggiunsi l'uscita e potei finalmente respirare l'aria della California, che sì non era poi così diversa da quella del mio Salento ma si avvertiva comunque l'assenza di basilico e rosmarino. E di creme solari.
In ogni caso arrivai ad una fermata con dei taxi speciali. Un tizio orientale, basso e con gli occhi a mandorla, di quelli che a Lecce ti vendono le pistole giocattolo, mi si rivolse, chiedendomi dettagli sul percorso.
Arrotondava, però, troppo la *r e io stentavo a capirlo.
Alla fine mi intimò, spazientito di attendere che il numero 56 arrivasse.
E rimasi lì ad aspettare, insieme ad altre persone, che per connotati ed espressioni giudicai far parte di almeno cinque nazionalità differenti.
Il 56 arrivò, imperioso, enorme, con almeno una decina di posti.
Il tizio orientale lo raggiunse quasi sudato, perché si spostava rapidamente da una fermata e l'altra.
Urlò talmente forte che sembrava da un momento all'altro pronto ad estrarre una sciabola e l'autista sconsolato scese, era tipo di origine est europa, grosso, pelato, con tratti cirillici. Il cinese lo seguì arrabbiato come un piccolo chiwawa abbaia insignificante a qualsiasi cosa si muova.
Prese le valigie, le infilò nel taxi e farfugliò qualcosa.
Cioè: salite.
E partì, spingendoci ad alta velocità su una tangenziale che, per prospettiva, sembrava andare incontro il sole.
Una palla gialla ma dal debole calore di un 6 novembre.
La città si stagliava sullo sfondo squadrata dei grattacieli concentrati in una unica zona, la downtown. Il taxi si inabissava sulla strada sfiorando le campagne, nelle grandi strade americane, raggiungendo in fretta e furia il centro abitato.
La prima cosa che noti appena giungi in città sono le strade.
Un continuo sali e scendi, salite e discese.
È come se usassimo il sottopassaggio della circonvallazione di Lecce per spostarci.
La strada va giù, la strada va su. Tiro dritto e scendo, urrà finchè non ti viene da vomitare.
"Maestroh sta giostra quandu spiccia?!"
E poi c'è nel mezzo un tram turistico, di cui alcuni vagoni sono stati regalati della città di Milano.
Esso annuncia il suo arrivo negli incroci centrali con un tintinnio del campanello.
Fastidioso, come la sigla di uomini e donne che Martina mi ha impostato per i suoi messaggi.
Parli del diavolo…
Martina h.:17 e 24
"Allora apposto? Si rriatu puru sta fiata? Però adesso possiamo parlare poco. io me ne vado a dormire che è tardi e domani mattina esco per l'estetista. Vado dalla Rosi che i peli delle gambe me li fa meglio. invece la Giovi mi lascia sempre metà pili. PD."
Fortunatamente l'autista strattonò troppo il volante facendo roteare violentemente l'auto per la svolta e mi deconcentrò dall'orrore dell'ultimo messaggio. A volte Marti mi faceva rabbrividire ma effettivamente aveva ragione: due tipi come noi, così di tendenza, non potevano di certo cedere agli inestetismi antiestetici.
E mi vennero in mente le lampade al solatè.
Dovevo trovare un modo per farle, qui, in California.
La terra del silicone.
"sì, sn arrivato. poi ci sentiamo meglio. per adesso mi manchi tanto e devo farmi pure una lampada. notte."
Il cinese seduto al posto del passeggero, ogni tanto, lanciava un occhiata all'autista. Non si fidava molto. E infatti lo rimproverava quando sbagliava strada.
Avevo paura, lo ammetto.
Dopo circa un'ora di sguardi da film di Kurosawa, arrivai all'albergo posizionato nel quartiere Coreano.
Appena entrai, poi, una signora mi si parò davanti offrendomi un calice di vino e gridando, orgogliosa, benvenuto a San Francisco: the land of the Vino.
"No, signora, it's called MIERU."
Era la prima volta che entravo in un albergo americano; ma non era poi così diverso dall'Italia. Un tizio scuro di carnagione che per comodità chiameremo Pantaleo, mi accolse con un caloroso benvenuto.
Mi indicò la stanza, dandomi le chiavi con il numero siglato sopra, e compilò il solito modulo coi miei dati.
Lo ringraziai e salii, giusto il tempo per spogliarmi e farmi una doccia.
Scesi dopo un po' e chiesi qualche suggerimento per andare in piazza, quella centrale, e lui quasi bramoso che gli chiedessi questo, prese un blocchetto di cartine dal cassetto, lo sbattè sulla sua scrivania e ne strappò un foglio. Come fosse un gesto meccanico, sicuro: una sua missione, strappare cartine.
E indicò con dei cerchi le zone di maggiore interesse. Le vie. I bus da prendere.
Io, con un po' di imbarazzo lo ringraziai ancora una volta e procedetti per la prima fermata del bus.
Che arrivò dopo qualche minuto di ritardo.
San Francisco non è poi così diversa da Lecce.
I mezzi pubblici ritardano, ne arrivano due dello stesso numero insieme. Si divincolano dalle auto, forse troppe.
Me lo diceva un signore sul tram, un signore con l'orecchino e il sorriso sardonico.
"Qui è nato Uber perché i ricchi non vogliono aspettare i mezzi pubblici.
[…]
Sono persino disposti a pagare cinquanta dollari per fare pochi metri."
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Subito scaricata l'app Uber |
Cinquanta dollari, uao.
A Lecce per non pagare un euro e quaranta di bus spendiamo dieci euro di benzina, mi rimbombò questo pensiero.
"Marti so che è tardi per te ma ti dico che sono nella piazza di San Francisco. Ci sono tante cose belle. Certo è più piccola di Piazza Sant'oronzo."
Effettivamente Union Square non è poi così grande ed è quasi una delusione dopo aver visto NY.
E la piazza di Galatina.
Faccio giusto un giro per andare a mangiare da qualche parte.
Trovo un ristorante, c'è gente dentro e l'atmosfera sembra abbastanza calda.
Entro.
Mi accoglie un tizio baffuto, in divisa bianca. Mi fa accomodare e mi chiede da dove vengo.
"Italy? Allora devi provare il nostro piatto italiano."
"Ho paura", gli rispondo.
"Tranquillo, è cotto bene."
Mi porta una composizione con carne e spaghetti insieme.
Insieme, sì.
Da una parte la pasta e dall'altra la carne, grondante sugo, che quasi si mescola con gli spaghetti in aglio e non so cos'altro.
Provo ad assaggiare: la carne è ottima ma gli spaghetti hanno il sapore del forno. Immagino siano stati cotti fino a scuocerli e poi riscaldanti nel forno.
Ripassa il cameriere e io gli dico "mmm buooooniiii".
Lo faccio contento.
Poi pago e vado via.
"Marco... ti devo dire una cosa."
Erano nove le ore di fuso orario e alle 3AM ora di San Francisco decisi di chiamarla perché dovevo risolvere la questione.
"Martina… cosa è successo? Cosa dovevi dirmi?"
"Naaaa mo mi fai finire i minuti!"
"Scusa invece di essere contenta che ti chiamo pensi ai minuti??"
"Cacertu! Che io non c'ho mica tutti i soldi che c'hai tu!"
"Quali soldi? Tra poco finisco come i barboni agli angoli delle strade…"
"Che schifo!"
"Dai… cosa dovevi dirmi??"
"Niente…"
"Come niente? Mi hai fatto fare il viaggio in aereo con questo pensiero!"
"Ce si scemu! Ti preoccupi troppo."
"Scusa, tu mi devi dire una cosa… Dimmela no? Che problema c'è?"
"Prima cosa sei una cretina!"
"Vabè basta…"
"Sine… è una fesseria…"
"E dimmela no?"
"è che… la Maristella mi ha detto che in California ci sono tante femmine zoccole. Non voglio che tu mi tradisca. Se dici ca suntu gelosa te cciu."
Mi feci una sonora risata e le risposi.
"Ma va! Ti ho comprato un pensierino."
"Davvero?? Allora iti cu turni subito."
Martina aveva il potere di trasformare qualsiasi conversazione romantica in materialismo puro. D'altronde non potevo biasimarla: veniamo dal Salento, la terra dove il romanticismo si fa sole, mare e vento.
Si fa materia.
Il bus su cui viaggiavo per tornare in albergo mi annunciò l'arrivo alla fermata, non c'era bisogno di premere alcun tasto.
Entrai e salutai Pantaleo che lasciò tutto quello che stava facendo per ricambiare.
Salii in camera e mi stesi sul letto, mi addormentai pensando a Modugno.
E sorrisi.
La mattina giunse con il suo carico di energia.
Preparai quello c'era da preparare e scesi, dirigendomi da Pantaleo per avere delucidazioni sul tragitto per Alcatraz.
Lui, di nuovo, prese un blocchetto di cartine dal cassetto, lo sbattè sulla sua scrivania e ne strappò un foglio. Come fosse un gesto meccanico, sicuro: una sua missione, strappare cartine.
Grazie, gli dissi, un grazie tenue.
Forse è un robot, pensai.
San Francisco si affaccia sul mare, secondo quanto leggo, era la città preferita degli avventurieri. Qui, ci costruirono dei moli dove attraccavano le navi di ritorno e in partenza per le indie.
Ma nella storia è rimasto un molo indelebile.
Uno in particolare.
Pier 33.
Quello per Alcatraz.
Avevo prenotato prima della partenza i biglietti per la prigione più famosa della storia. Salii a bordo di un battello dopo aver fatto la solita fila, un quarto d'ora e poi eccomi qui:
Ad Alcatraz c'era la nebbia fitta, che la circondava. Quasi fosse il film con Clint Eastwood. Ad essere sincero tutto questo mi metteva ansia e stupore. Gli americani sembra lo facciano a posta a creare il giusto pathos per ogni cosa. E in questo caso: una prigione su un isola nell'Oceano Pacifico avvolta dalle nebbie.
L'isola seguiva l'andatura naturale dei promontori e delle rocce. Salivi e scendevi, come se San Francisco non ti avesse abbandonato. Vidi di tutto e mi feci la classica foto da simpaticone in una cella.
Mamma mi hanno catturato, mandai un whatsup.
Mi rispose:
- C'HA FATTU LU FIJU MIUU??
Anche in questo caso: decisi di non rispondere.
E me ne vantai, con una foto profilo da coatto.
Dal battello di ritorno, scattai diverse foto all'isola.
Pensando a quello che più mi aveva colpito.
La cella di chi riuscì ad evadere.
In tre costruirono tre teste finte e le posizionarono sui cuscini. Intanto avevano scavato un buco nella parete. La notte attesero il silenzio e le tenebre per dare vita al loro piano di fuga.
Secondo la leggenda i tre morirono lanciandosi nell'acqua fredda ma per altri riuscirono ad approdare nel sud america e tanti saluti al sistema correttivo americano.
Approdarono nel Sud America e tanti saluti.
Mi ricordai così di quando alle superiori fuggivo da scuola per andare a fare colazione col pasticciotto nel bar vicino. Anche nel mio caso si trattava di raggiungere la libertà dell'ora di metà mattinata.
Li capii.
Prima di dire addio a San Francisco, volli fermarmi in altre tappe.
Un quartiere di cinesi che vendono pesce, erbe particolari e tanti sguardi storti.
A molti chiesi cosa fosse questo azzurrino:
O si giravano dall'altra parte o mi parlavano in cinese.
- Lombard Street;
La strada più ripida del mondo: PD.
E infine mi tolsi qualche sfizio.
Anelli di cipolla sul lungo mare.
Sembrava di stare a San Foca.
Colazione Americana.
E dissi addio anche alla seconda parte del viaggio.
11 novembre.
Mi congedai con Pantaleo, che mi strappò un altro foglio della cartina, poi rifiutai l'ennesimo bicchiere di Mieru delle 7 e 30 del mattino e mi diressi alla Hertz.
Per prendere l'auto.
Si apriva la terza parte del viaggio.
Quello più assurdo.
A cominciare dai pedali e dalle marce.
Quello più divertente
Che riuscì a frenare per cinque volte inchiodando e sfiorando incidenti.
E a procedere in prima.
Per quarantacinque minuti.
Quello più americano.
"Martina io prendo la macchina e parto per LA."
"Per LA, DOVE??"
Indossai gli occhiali da sole a specchio e mi preparai per Los Angeles.
"Compra del phard" mi disse "nu sia te pijanu pe culu ca si troppu biancu".
Ma.
Prima di partire, mi fermai a fissare, l'11 novembre, mi fermai a fissare il molo.
E scrissi:
"A malincuore lascio San Francisco. Una città colorata, una città straordinaria incorniciata in un paesaggio di mare con le colline.
Talvolta una coltre di nebbia la ricopre e rende il tutto ancora più affascinante mentre le strade salgono e scendono e sembra di trovarsi in un luna park.
Una delle città di Sergio Leone ha solo, per me, un difetto: trovarsi dopo new york perchè è difficile dimenticarsi della grande mela.
Ora si parte per il Big Sur e poi Los Angeles in un road trip sulla costa dell'oceano pacifico.
Un "on the road" con il GPS."
Ste segge su belle propriu,
penso mentre con una mano ne tasto la ruvidezza; sì, mi ricordano quelle a casa dellu Totu per il battesimo della figlia.
Un uomo accanto a me tossisce, ha i baffi, la pelle scura, basso e tarchiato si ingozza di Nachos. Poi esclama qualcosa e sorride compiaciuto. Dal camioncino di fronte a me, invece, giunge una voce in inglese e a seguire una in spagnolo: number eight, número ocho.
Oddio, è il mio turno.
È arrivato il mio Burrito, il secondo della mia vita.
È una palla enorme ripiena di fagioli, riso, carne e salsa guacamole; attorcigliato nell’alluminio ha le dimensioni di un neonato.
Più lo guardo, più immagino a come sarebbe stata la mia vita se fossi nato e cresciuto qui, in America: a Los Angeles.
Ma a dire il vero è come essere a casa.
Mangiare al camioncino di immigrati, le sedie in plastica, l’aria calda bagnata di umido e la tristezza negli sguardi.
Sì, è come andare al PD in una calda giornata di agosto.
Flash, qualche giorno prima.
Ci siamo io e un'auto.
Noi due con tante skittles.
Noi due diretti per:
COME SONO SOPRAVVISSUTO NEGLI STATI UNITI
SENZA CAFFÈ IN GHIACCIO E GUENDALINA
11 novembre.
Quando a San Francisco mi recai alla Hertz erano le 7 e 30 del mattino.
Il cielo di novembre era gonfio di pioggia, e ad essere sincero quel clima mi mise un po' d'ansia. Il cuore mi batteva forte, non sapevo nulla di strade e autostrade americane e nemmeno di auto.
A Lecce scorazzavo per le strade con la mia Panda 750 modificata con motore Abarth da Carmelino, il mio meccanico di fiducia.
Finii per amarla più di Martina.
Ci avevo messo anni per renderla spierta, esattamente dopo il primo fast and furious. Ci avevo aggiunto le minigonne, gli spoiler. Un neon blu dentro e una croce di cristo nostro signore appesa allo specchietto retro visore.
Quella croce me l'aveva regalata la nonna Giovanna per la comunione, ma i miei furono costretti a togliermela quando notarono una scoliosi. Il dottore disse, troppo pesante, mia mamma gli rispose, con gesù christu an piettu idi comu se fermanu le vagnone, diu perdoname se fazzu peccato.
Alla fine, però, vinsero gli assistenti sociali e io dovetti toglierla.
Al bancone al tizio orientale sudava la fronte, gli occhi schizzavano freneticamente.
Prese i miei documenti, mi chiese qualcosa a cui risposi come un contadino di Taviano, "eh.. cen… wha.. comu se dice.. I ham…", infine mi puntò il dito guardando alle mie spalle.
Con decisione, fermezza.
Con forza.
Obbligandomi a voltarmi.
E vidi un'auto meravigliosa.
Grande.
Bianca.
Lucente.
Col muso abbassato.
Con il posteriore alto.
Era la femmina che ti trovi al Tabù di Porto Cesareo.
La ragazza in perizoma perennemente a prendere il sole.
Lei, longilinea, quella per cui ti spacchi di palestra tutto l'anno, per cui ingurgiti polverine proteiche.
Quella per cui ti irriti il colon per il troppo cibo integrale.
"Ha squagghiare pe li addominali!"
Lei, ferma, lì, immobile.
Mi venne duro.
Uscii con la bocca aperta, la saliva che colava.
La raggiunsi e iniziai a tastarla con delicatezza. L'annusai.
"Per diu, ce bete!"
Ci entrai delicatamente, per non farle male e sprofondai quant'era grande.
L'odore di pulito.
Di feromoni petrolchimici.
"Matonna mia, comu se dduma?"
Provai a baciarla, niente.
Allora le inserii le chiavi con violenza, "alle donne piace" mi ricordai di averlo sentito da qualche parte.
E si accese, si illuminò tenue, poi forte. Vibrò lei, tutta, il mio sedere.
Gorgogliò amore.
Bene, Marco, e ora?
"Li amerigani nu capiscenu nienzi de machine, già ca tenenu le marce automatiche."
Le marce automatiche, esatto.
Provai a partire.
E fu un disastro.
Come la prima volta.
Le auto americane hanno due pedali: freno e acceleratore.
Perché non hanno frizione.
Ma il problema che si pone per un italiano è il pedale della frizione, appunto.
Uno, in automatico dirige il piede dove normalmente c'è quel pedale, infatti.
Ennò, lì c'è il freno, per l'appunto.
E bam, la macchina inchioda.
E bam, ti ritrovi catapultato sul cruscotto.
Porcu diaz.
Mi ritrovai sul cruscotto svariate volte prima di capire che:
1) La frizione non esiste.
2) Il pedale del freno è enorme.
3) Il freno è tirato al massimo.
Bella, bellissima sei però, le dissi.
Adesso fammi guidare de garbu.
Impostai il navigatore per la pacific highway.
E partii.
Fino a quando mi accorsi che c'era qualche problema.
Vroom. Vroooom. Vrooooooooom.
Dopo quarantacinque minuti mi sembrò strano che l'auto facesse sempre e solo un rumore.
Uno solo.
Vroooooooom.
Dissi a me stesso di non preoccuarmi.
"Cavalli americani", è normale facciano gli sboroni.
Sì, marco, non è normale che non riesca a superare gli ottanta chilometri orari senza sentire l'auto che fa fatica.
Mi accostai, presi il libretto delle istruzioni.
Buttai il libretto delle istruzioni.
Guardai l'unica marcia e cercai di capire.
C'erano una A e una M.
A ed M.
Mmh.
E poi l'illuminazione: e se ho fatto il viaggio in prima perché ho impostato il cambio sequenziale?
Vediamo.
Rimisi in moto l'auto e iniziai a correre.
Provai a cambiare in A e…
… la magia.
L'auto non faceva più quello strano rumore.
Insomma, avevo viaggiato per quarantacinque minuti in prima.
Cavalli americani.
Cugghiuni salentini.
Avevo impostato delle tappe data la lunga traiettoria da seguire, più di duemila chilometri.
Carmel.
E infine dritto per dritto fino la megalapoli.
"Sulla strada stai attento alla polizia, ti spara se corri troppo..."
Mia madre.
"… fiju miu sta mangi?"
Mia nonna.
"… sacciu ca tie fuci comu li pacci. statte attentu ca addhai te sparanu…"
Mio padre.
"se t'ammazzi o t'arrestano io mi prendo lo stesso i regali di Tiffany eh."
Martina.
E io lasciavo correre, fuggivo via da questo mondo.
E ci avevo preso gusto.
Ogni occasione era buona per sbirciare il più possibile fuori dal finestrino. Mi godevo uno spettacolo splendido. Anche se ero in parte abituato. Il Salento coast to coast offre una visuale straordinaria, soprattutto l'estate, col canto delle cicale, l'odore di erba secca e lo sfondo macchiato di arbusti.
Correvo sulla mia Dodge Charger 3000, correvo puntando al massimo l'acceleratore, incastrato nelle file ordinate dell'autostrada californiana. I veicoli ordinati sulle proprie corsie, così grandi e così tranquille.
C'avevo più paura a guidare da Lecce a Napoli che da San Francisco a Los Angeles.
Esattamente.
Quelle strade enormi non mi mettevano ansia.
Ero così contento di guidare, col mio cambio automatico e i miei occhiali da sole.
Ero partito per Los Angeles e più lo ripetevo a me stesso e più non ci credevo.
Mi sentii in diritto di rallentare, sempre di più, finché quasi non mi fermai. Mi suonarono e allora mi spostai nell'ultima corsia sulla sinistra. Ma anche lì mi strombazzarono. Era un camion.
Insomma capii che le corsie avevano un senso.
A destra i veicoli lenti a sinistra quelli veloci.
E mi misi in mezzo, dunque.
Avete presente la tangenziale di Bari? Bene.
Non c'entra nulla.
Se lì provi a mettere la freccia ti sparano per principio.
"St' qua m'ha mess la frecc. È arrivato u' trmon?!"
Qui, invece, se la metti rallentano per farti passare.
Uao, dissi.
Uao, ripetetti.
A questo serve la freccia.
"Martina ti parlo da una dodge charger…"
"De dune?"
"UNA DODGE CHARGER.
Gli occhi mi brillavano.
"Ma de ce parli??"
"Marti è una macchina. ENORMEEEEE!"
"Ah."
"Come va? Che fai?"
"Sto vedendo Pepa!"
"Pig? A peppa pig ti sei ridotta??"
"MA SI SCEMU?! Quella del Segretooo! Non mi ascolti mai!"
"Ah scusa. Beh, come va?"
"Devo chiudere che Pepa non è morta!!!"
"Pronto? Pronto??"
Chiusi e continuai a guidare.
Davanti a me la strada.
La vita.
(Per quello che mi era costato 'sto viaggio.)
Decisi di fermarmi in un piccolo paesino di passaggio.
Un paesino colorato di Murales.
Santa Cruz.
|
Ritratto di "Vagnone ca more de fame"
|
Proseguii per un centinaio di chilometri.
Un po' di paesaggio uggioso fino a quando non attraversai Carmel.
Qui accadde qualcosa che cambiò il viaggio.
Definitivamente.
Venne come un calcio di rigore sbagliato da Chevanton. Mi venne alla nuca, all'improvviso.
Quella sorpresa mi colpì come nessuno o quasi aveva mai fatto.
Sulla strada il navigatore mi segnalava ancora molti chilometri alla meta. Erano le quattro del pomeriggio e il mio stomaco brontolava. L'emozionante tour lungo la costiera del Pacifico mi aveva lasciato talmente di sasso da farmi dimenticare di pranzare.
E questo non era da me.
A quel punto decisi di fermarmi nella prima città che avrei trovato.
Io, solo.
Un pasto al volo mi promisi.
Sì, me lo promisi.
Ma no, non fu al volo.
Carmel era attraversata dall'autostrada. Conservava la conformazione da città del far west e lo si poteva notare dalla disposizione delle case e del centro commerciale. Enorme, che si stagliava alto e imponente accerchiato da altri negozi. Piccoli, come se si inginocchiassero al suo cospetto.
È un po' come l'IperCoop di Surbo. Dove Surbo è il far West e il centro commerciale l'unica cosa che ricordi di importante.
Parcheggiai l'auto, la mia bellissima auto, le feci una carezza, lei mi suonò il clacson e io le dissi che sarei tornato a breve.
Scelsi una tavola calda, di quelle col vetro sulla strada, di quelle con le poltrone lunghe e morbide e rivestite di tessuto plasticoso.
La cameriera arrivò gentile e premurosa per lasciarmi dell'acqua e un sorriso e mi chiese se fossi pronto.
Io risposi "il solito".
Lei "hamburgher and chips?"
"Yeah!"
Mi guardò male. Ma capii il mio essere core preciatu.
Mandai un messaggio a Martina nel mentre per comunicarle la posizione.
Come un capitano amoreggia con la torre di controllo.
"Martina sono in un posto molto figo. Mangio le solite cose. Il tempo di fermarmi e poi riprendo."
Stranamente mi rispose subito "Ok. Però non mandarmi messaggi a quest'ora che dormo. Poi mi si illumina il cell. Io mi alzo perché penso sia la promozione della Kiko e invece sei tu."
Mi scappò ad alta voce un Nu ne scrivi chiu nienzi, fanculu.
E poi la sorpresa.
"NOOOOOOOOOOOOO."
Mi prese un colpo.
"NOOOOOOOOOOOOO!!"
Un altro colpo.
"NOOOOOOOOON CI POSSO CREDEREEEEE!"
Un infarto.
"SALENTINU COMU A MIE SINTI DDHA LA MATONNA??"
Pensavo di sognare.
"MAESTROH, MA DE DU SINTI??"
Mi voltai, e c'era dietro di me un tizio alquanto losco. Uno di quelli che ti trovi a passeggiare sulla litoranea di Torre dell'Orso.
Quelli che con fare atavico, indirizzano la loro mano sul pacco, lo tirano giù e poi su. Si arrovellano gli zebedei e poi, in una smorfia di soddisfazione mascolina, si compiacciono del loro essere masculi.
Aveva gli occhiali da sole grandi, con linee dorate, i capelli all'insù, e un vistoso tatuaggio di un bacio sul collo. Un tocco di classe come un rutto a fine pasto.
"Porcu dissi, de du sinti, cumpà?!"
Mi urlò spaventando gli altri presenti.
"Eh… mato… di Lecce!"
"Ma de lecce lecce? o Lecce fore le mura?!"
"No.. Lecceh lecceh."
"Dha diu che bellu. Nu paesanu a quai! A du sta bai?? Se me possu permettere!"
"Tranquillu beddhu. Sto scendendo per Los Angeles."
"NAAAAAA E VABENE ALLORA OSCE LU SIGNORE È RRANDE. PURU IOU!"
"Ma guarda te! E come vai?"
"Come AU?? All'ampete no?! Chiedu li passaggi comu pe lu guendalina!"
Rise muovendo il collo.
Muovendo ll tatuaggio.
E a quel punto sembrò che le due labbra mi parlassero.
Che mi esclamassero "sine moi a quai!"
"All'ampete? Scusa io ho la macchina. Ti serve un passaggio?"
"No.. dai… nu sia te disturbi… ma sine dai e gnu!"
"Come ti chiami?"
"Massimo de Giorgilorio. Ma li amici me chiamano Max Decimu Merisciu."
"Ahh come il Gladiatore?"
"Cene? None perce allu merisciu me fazzu dece CANNUNI. MPUNNAMU CHIANAAA!"
Decidemmo di festeggiare per l'incontro.
E fu un errore tutto questo.
Ma lo scoprii dopo. Molto dopo.
Sembrava strano, io non avevo mai dato passaggi a nessuno nel Salento. Eppure mi sentivo in obbligo di aiutare Massimo. Li salentini s'hanno aiutare sempre, mi ripeteva Osvaldo, il vecchietto che nel BarRetto di Castromediano entrava solo per chiedere l'acqua e leggere il giornale.
Poi morì soffocato.
Lu fazzu pe tie Osvaldo mio.
Il cielo sembrava perdere gradualmente quel grigiore per trasformarsi in un blu.
Ceruleo, rilassante.
La mano ce l'avevo da diverso tempo sul cambio, per darmi arie, ma quell'atmosfera con uno sconosciuto mi metteva un po' di imbarazzo.
Decisi così di rompere il ghiaccio.
- Massimo ti spiego il percorso, così, per chiarezza.
- Dimme Marcu, dimme. Ah, idi ca iou nu parlu italianu. Solu dialettu dellu Salentu miu!
- E come hai fatto qui? Manco l'inglese sai?
- Iou? nu ce besegnu. Comunicu a gesti.
- A gesti?
- Sì, aggiu studiatu quistu:
E mi passa questo foglietto stropicciato.
- E ti è andata bene finora?
- Alle vagnone in piace quando ne fazzu "tiè"!
E rideva, disegnando rotondità su una pelle paonazza.
- Comunque noi adesso faremo la strada fino a elle ei (mi piaceva pronunciare LA, arrotondare le lettere per darmi un tocco sopraffino). E lì, io ho una camera in albergo. Tie?
- Iou? Vabbè mo bidimu. In caso chiamo e vedo se piji na doppia!
- Faci tutti tie?
- Cacertu.
E chiamò l'Hotell.
Con Skype.
Comunicando a gesti.
E ce la fece.
Sì, ce la fece.
Ora ero in camera con un'altra persona.
Un salentino.
Uno sconosciuto.
Un oceano di luci, serpenti colorati di rosso e giallo, un torrente di auto davanti a me.
L'indicazione Los Angeles in alto, sovrastò per diverse volte la nostra auto. La superammo io e Massimu con gli occhi sempre più lucidi per l'emozione.
"Beivuoch sta rriamu!"
Massimo non aveva dormito per tutto il tempo, troppo eccitato diceva lui.
Ma iniziai a pensare che si facesse di qualcosa.
Ogni volta ci fermavamo per fare una sosta, diceva "I go for pisciare" e quando tornava, tirava su col naso.
Che tra l'altro era ormai un punto enorme rosso.
"Tutto bene?"
"Si si si si si!"
Sì, per cinque volte ripeteva.
Sempre.
"Sì?"
Rideva a crepapelle e poi si lasciava andare a dei commenti sulla sua attività fisiologica.
"Ho fatto una cacata assurda. Ora mi sento meglio. Putimu scire!"
"Ma tu ti senti a tuo agio a cagare in bagni diversi dal tuo?"
"Percé?"
"Mah, io a volte non ci riesco. Mi fa un po' senso!"
"Senso? Ca pelle subbra la plastica a mintere. Te setti e tac fatto!"
"Bah, sarà. Comunque possiamo andare?"
"Sine, ce sta spettamu??"
Era arrivato il momento che gli facessi una domanda. Così, per curiosità.
"Vuoi guidare un po' tu?"
"Io? Mmh… No dai, me piace comu guidi tie."
Lo guardai.
Sbattei le palpebre convulsamente.
"Ti piace come guido io? Ce bete na giostra?!"
"Si propriu simpaticu! Sì, me piace comu guidi. Per la prima volta vedo un salentino che mette le frecce per sorpassare. O per girare! Non mi era mai capitato!"
"Ah vabbè ma io le metto perché mi piace il suono. Quel "tlak tlak". Dice Martina che si eccita quando metto la freccia. Ce su strane le vagnone!"
"Povera a tie ca t'ha ncastratu."
"E tie?"
"Iou? Ma si pacciu? Suntu salentinu, in California culle biiondone de beiuoch. Dici ca me ruvinu cu na vagnona sola??"
"Iata a tie!"
E poi si accarezzò il bacio sul collo. E mi fece un effetto strano. Come se quelle labbra si muovessero. Di nuovo? Mi chiesi.
Marco le labbra non si muovono.
Per il resto avevo ancora due dubbi su Massimo.
Pensavo: e se non avesse la patente? E trovasse scuse per non guidare?
Ma soprattutto: che cosa ci faceva in California?
Queste domande svanirono in fretta, però, quando squillò il telefono.
Era Martina.
Il nome "Love mio" sulla sua foto al mare.
Per la prima volta mi salì un ansia addosso.
E mi preoccupai.
Sono Salentino, sono in California: che cosa ci faccio ancora fidanzato?
Ma anche questo pensiero svanì una volta che sentì la sua voce:
"Amò se nu me respundi subbitu quandu te chiamo te bruciu le magliette dellu lecce."
Quando il conto alla rovescia per la grande città era ormai iniziato, avvertii un po' di stanchezza.
I cartelloni verdi con le varie destinazioni indicavano un numero di miglia via via inferiori e sembrava volessero dire "mena, mena… MENA!". Ma io, che avevo guidato per circa cinque ore ininterrottamente, non ce la facevo più. No, non ce la facevo più.
"Massimu ue guide tie?"
"'Antorna?"
"Comu antorna? Mica hai guidato."
"No, nel senso ca 'ntorna me lu chiedi?"
"E beh."
"No, me piace comu guidi."
"'Antorna?"
"Comu antorna?"
"Nel senso ca pare me piji pe culu! Ue cu guidi si o no?"
"No."
"Ma percé?"
"Percè no!"
"Teni paura??"
"UN SALENTINOH NON TENE MAI PAURA. UL LECCE. SENZA PADRONI."
Misi una mano al petto ma gli chiesi comunque il perché di questa uscita.
"Così, me piace ricordarla."
"Ma la patente ce l'hai??"
"UN SALENTINOH VERO HA TRE MACCHINE A CASA. NON SI SPOSTA SENZA. UL SENZA PADRONI!"
Rimisi la mano sul petto e gli chiesi nuovamente il perché.
"Così, me piace ricordarla."
"Vabè meh, fermiamoci un attimo che prendo qualcosa da bere e poi dritti fino la meta.
E ci fermammo in una piccola stazione di servizio.
Il tempo di fare benzina e di prendere qualcosa da mangiare.
Erano circa le sei e mezzo del pomeriggio e mi sembrava di essere invecchiato per quanta stanchezza avevo addosso.
"Sta ba cacu eh!", urlò Massimo.
Gli feci cenno di aver capito mentre continuai a guardarmi intorno.
E attesi, attesi.
"Massimo appostu?"
"Sì sì sì sì sì."
Ci risiamo.
Uscì felice, gli occhi rossi e il tatuaggio sul collo rinvigorito.
"Ah, finalmente. Sì sì sì sì sì."
Sì.
Lo guardai perplesso e pensai ai giorni che scorrevano veloci.
Il tempo non si fermava, scorreva ininterrottamente; qualcosa in me iniziò a cambiare. Che interesse avevo a ritornare nella mia terra? Mi sentii male, però, al sol pensiero. Non era da me, questa malinconia. Io, che amo la mia terra, non era da salentino.
Eppure ero lì, tra le leggere brezze delle auto sull'autostrada.
Tra le esclamazioni compiaciute, incomprensibili di una lingua non mia.
Tra il sole morente alle spalle della stazione di servizio; una palla fluttuante, arancione, come di quelle mai viste.
Un contrasto tra la natura verace e l'artificio.
Un…
"Beh? Se sta face notteh! Te sbrighi??"
"Sì, arrivo…"
E andai lanciando uno sguardo a quei puntini luminosi, lontani.
Di fronte sulla grande autostrada.
Ma andai via da quell'intermezzo, lasciando un briciolo di ansie e paure.
Per un ritorno che lentamente diventava indesiderato.
Qualche ora prima di partire per gli USA.
Marco mo che parti non dimenticarti di me. Fatti sentire sempre. Sempre. Sempreeee.
Ok Marti, ma vedi che non è facile. Devo fare abbonamenti, schede telefoniche ecc…
Non me ne frega niente: fatti sentire.
Qualche ora prima di arrivare a Los Angeles.
Marti?
Di nuovo mi chiami??
Ma se mi hai detto di farmi sentire sempre.
Sì, vabbè ma mica sempre sempre eh. La Ludo mica si sente con l'Andrea ogni secondo!
Ma se abitano insieme!
E che c'entra! Intanto non si sentono e si asfissiano!
Asfissiano?? E vabè scusa allora.
Vabè dove sei?
Sono quasi arrivato!
Appost.
No, non era tutto apposto.
Affatto.
Ultime ore del viaggio...
"Io crisciu nell'America. L'America fece la mia fortuna. E io crescivo come n'americanu salentino.
Culle fiction, culle vagnone bionde, mi imparai pure a dire "yo maestroh".
'Nsomma eru lu megghiu delle case popolari de via calore.
Le fimmene me secutavanu ma iou nu ne bulia solo una: le ulia tutte.
Sai lu dettu, dellu jabbu nu ci mueri ma ci cappi? Eccu. Me misi cu na vagnona. Me 'nnamurai.
La stria de Caprarica era. Me la purtava sempre allu cinema per bidere li film de mazzate.
Cuerpi su cuerpi. Bum bam pem. E iou me gasava.
"Maristhella sta bidi ce su belli? Quanti cuerpi se dannu?? Pam pem!"
Poi nu giurnu la sentu chiangere. E chiangere. E chiangere.
"Maristhella? C'ha successu??"
"Nu vagnone m'ha dittu ca nu su abbronzata. Ca paru na seppia. Ca iddhu le inde, le seppie, allu mercatu de settelacquare."
Bellissima era, iddha, sittata sulla panca della nonna Elvira.
Menai bestemmie, porcu quai e porcu ddhai. Ma lu pigghiai lu strunzu. Ni desi le mazzate.
Quasi lu cisi.
Ennera li sbirri e me accusarunu.
"Danni fisici", dissera.
L'onore della vagnona mia lu mantenni, però."
- E poi? chiesi mentre al camioncino il messicano gridava numeri spagnoli, che successe?
"Nienzi, me lassai culla Maristhella, ca sia nnamurata troppu. Me dicia "iou nu vagnone fiaccu ogghiu. Bad propriu comu a tie!" E cussì pijai li sordi ca tenia de parte e inni a quai, in California. Lontanu da tutti.
Solu ca me rieterarunu la patente.
Eccu percé nu possu guidare…"
- Ah, e non potevi dirlo prima?
- E tie nu me l'hai chiestu!
- Comu no?!
- Me dicii "guida guida tu!"
- Però… fammi capire…. Massimo, sei scappato dall'Italia perché i poliziotti ti avevano arrestato?
- No, ce dici. Dici ca scappo dagli sbirri??
- E allora?
- Iou nu tegnu paura degli sbirri!
- Ho capito… allora perché sei qua?
- Perché… percé… quandu le vagnone se taccanu troppu… iou nu ci la fazzu cu stau chiui…
- Scusa e c'era bisogno di fare tanti chilometri
cu scappi via??
- Me piacenu le biondone… tettone!
- Vabè meh, facimune nu giru ca stu burrito m'ha china la panza!
- Sì sì sì sì sì.
Gli odori del cibo messicano erano così buoni che non riuscivi a staccarti via da quel camioncino. Volevi provare tutto ma come spesso accade la domenica dalla nonna:
non si può mangiare per sempre.
Nemmeno qui.
A Los Angeles.
Ca li sordi eranu quasi spicciati.
COME SONO SOPRAVVISSUTO NEGLI STATI UNITI
SENZA CAFFÈ IN GHIACCIO E GUENDALINA
SAN FRANCISCO
[Seconda Parte]
PACIFIC HIGHWAY
(Intermezzo)
LOS ANGELES
(Terza e ultima parte)
Ultime ore del viaggio...
Max lo conobbi per strada.
A Carmel.
Non aveva molti bagagli, solo uno spirito avventuriero.
Non parlava italiano, solo salentino.
Ma di quel salentino gretto, che ascolti nella periferia, nei bar cristallizzati in epoche lontane.
Quel dialetto delle nonne, sedute fuori l'estate sulle sedie di legno.
Era quasi un'apparizione.
Max fuggiva dalla ragazza, che ormai era diventata un tormento; ma fondamentalmente aveva tanti soldi da parte da volerli spendere e poi vantarsi una volta tornato.
"Li amici mei mi devono invidiare, addhu bessere lu megghiu!"
"Io tra cinque giorni torno in Italia, Max, tu cosa farai?"
12 Novembre.
"Eccola, Eccola" urlai colpendo più volte Massimo.
Los Angeles, la città degli angeli.
Lui si svegliò di soprassalto gridando "
stau sveglio, stau sveglio!".
Gli chiesi di guidarmi verso l'hotel; la strada era già inserita nel navigatore e non avrebbe avuto altro da fare se non impostare il percorso.
E contro ogni mia aspettative riuscimmo ad arrivare in poco tempo.
"Attento Marco, a Los Angeles c'è il peggior traffico d'America" mi dissero in molti.
Ma io ero più che forgiato da quello di Lecce.
"
Se c'è na cosa ca funziona a Lecce ete lu trafficu!"
"'Evening!"
Appena scesi dall'auto fummo accolti da un un tizio mulatto in camicia bianca.
Ci chiese le chiavi dell'auto.
Io sinceramente non capii subito.
"Massimu ma ce bole?"
"Pensu sordi sai.."
"Sordi? E lampu! Fanne rriare mustafà!"
"
Tieni nà" gli allungai un dollaro "
buy a gelato…"
Mi guardò male, poi sorrise sfoderando denti bianchissimi, e a gesti ci fece capire che era il parcheggiatore.
"Marcu nu te fidare.. quistu parcheggiatore abusivu ete!"
"Naa puru a quai stannu?!"
E gli allungai un altro dollaro.
Lui lo accettò alzando gli occhi al cielo e sembrò stufato quando ci indirizzò verso la reception.
E lì ebbi la consapevolezza di essere arrivato in una megalopoli.
Al computer, un uomo enorme.
Quando parlava non guardava mai in faccia.
Le lenti degli occhiali riflettevano lo schermo del computer e le poche parole, spedite da copione già scritto, viaggiavano afone e robotiche.
"Iddhu na. Te piacenu le purpette ah?!"
"Massimo
cittu"
"
Mena tanto mica conosce il dialetto."
Sorrisi dandogli ragione.
Poi una folata di vento e attraversò l'atrio una ragazza pallida, vestita di rosa, con i capelli rosa.
Sullo sfondo blu delle pareti dell'Hotel sembrò una medusa.
Fluttuante.
Trasparente.
Affascinante.
Uao, dissi dentro di me,
che figata.
"This is your Key for the room.."
Presi le chiavi, le valige e ci indirizzammo verso la camera.
Ma con "
Excuse me!" il tizio corpulento ci richiamò.
Ci spiegò dopo mezz'ora di conversazione che a quello fuori non dovevamo dare soldi perché era il parcheggiatore dlel'hotell.
A quel punto dissi a Massimo "
hai istu?! tenmu puru lu parcheggiatore ufficiale."
E dentro di me partì il riff.
SE QUESTA È LA VITA A LOS ANGELES
MMH MMH
POI TANTO MALE NON È.
Ultime ore del viaggio...
"Nu sacciu… Marco… Forse teni ragione… Forse è megghiu cu rimanimu a quai..."
13 Novembre.
Decidemmo di fare i primi giri nella città per conoscerla meglio.
Alla reception.
"Maestroh la car? Dove sta? Where is the car?"
Lui ci gesticolò senza distogliere gli occhi dallo schermo e ci puntò il dito verso il corridoio che dava al parcheggio.
"Grazie, don't know?!"
Alzò lo sguardo per lanciarmi una occhiata, disgustata.
Ad aspettarci c'era lu Totu, il parcheggiatore.
Abbronzato, con la camicetta e il cappellino.
Dissi a Massimo "moi comu dicimu a quistu ca n'ha dare la machina?"
"Spetta ca qualche parola in inglese la sacciu."
"Eh.. Master… we need the car…"
Ci rispose qualcosa che non capimmo ma non fu importante quando giunse con la nostra bimba.
La nostra bellissima dodge: bianca ed enorme e 'spierta da farci sembrare dei surbini in assetto da rapina.
Io e Massimo ci guardammo estasiati e indossammo gli occhiali da sole:
eravamo pronti.
Los Angeles è districata in diverse zone e un vero losangelesiano non direbbe mai "vivo a Los Angeles" perché è come dire "vivo in Lombardia".
Si specifica la zona: LA, Glendale, Venice, Santa Monica ecc..
Sono città in una megalopoli attraversate da una enorme autostrada.
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L'incrocio del bar Rosso e Nero visto dall'alto o come lo chiamerebbero qui:
The burdel of Red and Black.
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A Venice l'aria odorava d'estate. Era novembre ma il sole forte illuminava ogni angolo della via.
Venice beach è come Gallipoli. Una città immersa di odori molesti, fermenti giovanili, capelli rasta, bottiglie di birre e tanto, tanto mare.
Qui io e Massimo ci stendemmo in un prato e ascoltammo i suoni del mare.
Le onde che scandivano i nostri ricordi.
- Marcu ogghiu tornu!
- Io, no invece…
- C'ha dittu?
- Non voglio tornare…
- Su cose da dire??
- Eh sì. Mi piace stare qua. Ho tutto.
- Come il nostro Salento non c'è niente!
- Bah… ci sto ripensando. Guardati intorno. Abbiamo tutto. Il sole, il mare, il vento. Ok, non abbiamo l'US Lecce, non abbiamo il caffè in ghiaccio… il guendalina. Non abbiamo la nonna… e tante altre cose ma senti che libertà. Sentila. Respirala.
Annusò l'aria, Massimo.
- Iou sentu na 'ndore de canne…
- Eccu sta bidi? Puru a quai tenimu le canne dellu Parco Gondar!
- Sta 'mpaccisci. 'Ntisate ca scia mangiamu.
Le ali di pollo imbevute di salsa piccante messicana e poi della Louisiana sono molto buone.
Saporite, finché i gangli intestinali riescono a reggere cotanta veemenza. Il problema principale è che non te ne accorgi subito del grave errore che hai fatto.
E infatti.
La sera il mio intestino lo sentivo gorgogliare.
Muoversi convulsamente.
Lo sentivo male. Molto male.
La mia fortuna fu trovarmi in camera, dove potei scappare subito in bagno. E lì, diedi il meglio di me.
- Marcu sta te cachi? Duma l'aspiratore!
- Sine, tranquillo!
Urlai dal bagno, seccato.
Quando c'è un incendio si vieta categoricamente di aprire porte per impedire che l'arrivo di ossigeno possa alimentare ancora di più le fiamme.
Lo dicono per evitare stragi.
Lo dicono per salvare vite umane.
Ma chi è, in momenti di panico, così coscienzioso da ricordarsene?
E così aprii la porta.
L'aprii con l'adrenalina di un uomo che vuol scappare via da un orrore.
E l'aria si fece marcia.
E la moquette si impregnò.
E allo stesso modo delle spore, da quel manto morbido, fuoriuscivano polveri sottili.
Mortali.
- Porcu dissi, c'ha cumbenatu? Ce colera!
- Pure a te succede!
- Santo dio. Qui si muore. SI MUORE!!!
La leggenda narra che la notte dormimmo con le finestre e le porte aperte, con i lucchetti e le valige attaccate al corpo.
Pare che ci furono diverse lamentele.
Ultime ore del viaggio...
Gli americani non capiscono nulla di cucina, sentivo dire spesso. E in parte ci credevo. Anzi continuo a sostenerlo. Eppure per come ho mangiato si può dire che questo è un falso, del resto come noi italiani mammoni.
14 Novembre.
La mattina era iniziata presto, avevamo in programma una visita agli studios cinematografici. Erano tanti e dislocati in diverse zone della città.
Il letto sfatto mi riportò alla mente dei ricordi vecchi e recenti, in un susseguirsi di scene di una routine quotidiana, immagini che focalizzi meglio quando sei lontano da quei gesti abitudinari.
- Massimo però mi manca la mamma… Sai che la mia quando esco di casa presto e non ho sistemato il letto, sai che me lo fa lei?
Perché dice:
ca se mueru almeno li cristiani nu dicenu ca lu liettu era scunzatu!"
- MATONNAAAAA PURU LA MIA FACE CUSSI'!
Per un momento fissai meglio il mio compagno di viaggio, era già pronto, vestito, pulito, e aveva il letto sistemato. Come se non lo avesse mai usato. Gli chiesi spiegazioni ma mi rispose "te droghi?".
E così non ci badai.
Entrammo in macchina e partimmo per un lungo tour.
Avvertivo qualcosa di strano.
Però.
E dal nulla, sorpassando una serie di auto in fila.
- Sì, sì, sì, sì, sì.
- Sì, cosa Massimo?"
Tolse il dito dal naso, se lo studiò e poi si pulì sui jeans.
- … Cosa sì?
- … Hai detto sì… Non ho capito a cosa, però.
- Ma ce te fumi?
- Comu? Mo l'hai ditta.
- Guarda ca nu n'aggiu dittu nienzi.
- Vabè
meh,
lassa perdere.
- Fermate ca aggiu cagare.
- 'Ntorna??
- Sì sì sì sì sì.
Portai l'auto fino al parcheggio di un fast food, In&Out il nome, e mi fermai.
Lui si diresse in bagno. Io ordinai e mandai un messaggio a Martina.
"Martì stiamo per andare agli studios della Warner Bross. Tu che combini?"
Sapevo benissimo fossero lì le 21, ma, stranamente volevo sentirla.
Ascoltare la sua voce, la sua cadenza meridionale.
Il suo essere forte e deciso da farmi apparire quasi un estraneo.
Dicevano: ma perché non la lasci? Ti comanda sempre a bacchetta. Non è da uomini
latini.
Rispondevo: le donne del sud sono forti, devono esserlo per crescere un bambino.
E decisi persino di chiamarla.
"Sta fazzu la dieta", esordì così nell'unica conversazione cui riuscimmo ad avere per lungo.
Mi raccontò.
'La nepute della zia Tetta de Scorranu m'ha consigliato sto dietologo. Nu possu mangiare nienzi pero. Ddhadiaz.
Quel dolce momento tanto atteso, quello per cui tutte le incertezze di un viaggio dovrebbero sparire.
E parlava Martina, parlava. Non mi chiedeva nulla. Come stai? Che hai fatto?
Nulla.
"Martì sai che og.."
All'improvviso in lontananza, dall'altra capo del telefono sentii forte e chiaro:
'Martina c'ha mangiare osce?? Pastah o insalata. Mena ca la nonna ha purtatu la parmiggiana!'
Era la madre.
La sentivi urlare a distanza.
'Martinah lu Marcu ce sta face?? Stae culle americane no?? Dinne cu torna ca tenimu tanti posti belli a quai senza cu se scafa alle americhe!'
Non ebbi il tempo di replicare che mi rispose fredda.
'
Mena che devo mangiare.'
'Quindi quando torno ti trovò magra?'
'Ce boi dici? Ca su rossa??'
'No però se fai la dieta...'
'Ciao Marco.'
E chiuse.
"Pronto? Pronto?
"Ancora a
quiddha 'sta pensi?"
Massimo era tornato con un volto soddisfatto e capii che era andato tutto bene.
Mangiammo e partimmo per i
Warner Studios.
Era la tappa centrale del giorno.
Sulla strada, ad intervalli, lo iniziai a fissare, Massimo.
Il suo tatuaggio.
I suoi capelli.
Il suo modo di vivere.
Un salentino come me, in America, che cosa buffa mi dissi.
Negli Studios della Warner Bross, ci facemmo un giro sopra un trenino. Nella motrice c'era una ragazza, tatuata, che parlava in inglese.
Solo e soltanto in inglese.
- Sta giaggianese… e nu parli de carbu?
- Cittu Massimu…
Discuteva di tutti gli stage e i posti famosi.
Dove avevano girato le scene dei film della casa di produzione e dove ne stavano girando di nuove.
Passammo per un capannone dove c'erano dei falegnami che lavoravano, non tutti. Uno era steso su un bancone. Altri ridevano.
E quelle risa mi contagiarono.
E risi anche io.
Mi venne alla mente lo zio Antonio; un falegname d'altri tempi. Me lo ricordavo taciturno e scorbutico mentre lavorava il legno nella sua casa a Santa Rosa.
Gli piaceva quel mestiere, un genio.
La mia terra di falegnami, di operai manovali. Di contadini. Pagati poco ma maestri nel cuore e nell'animo.
Sul finire del giro turistico, bam. Ci troviamo nel mezzo di una esibizione dei costumi e degli oggetti e dei veicoli di tutti i batman. TUTTI.
Gli Universal Studios con le macchine di Fast and Furious.
|
- Martì guarda comu quiddha dellu boss de Campi ete!
- Almenu nu tene na panda scasciata comu la toa, Marcu!
|
La giornata volse al termine con un giro sulla
Walk Of Fame.
Ultime ore del viaggio...
Nove ore di differenza con l'Italia.
Con la Puglia.
Con Lecce.
È buffo perché è come se mi trovassi indietro nel tempo in un paese avanti cinquantanni.
Un paese avanti ma senza bidet.
Comu fannu, dicu.
15 Novembre.
Ovvero: di come Marco si vestì di Malinconia.
La mia terra, i miei ricordi, è solo un viaggio Marco, solo un viaggio.
E se esistono altri mondi oltre il Salento?
Non c'era modo di fermare l'auto, che sfrecciava imponente sull'asfalto ruvido e rovente. Il sole alle mie spalle a brillare sullo specchietto retrovisore i sogni e le speranze dell'ultimo giorno del mio viaggio.
Rivolgevo spesso lo sguardo, come per accertarmi di non essere solo in questo tragitto. Gi occhiali da sole che tanto Salento avevo riflesso pendevano sul naso, la fine di un'avventura senza precedenti.
Io non potevo farcela.
E da una certa altezza la città bollente di mille luci mi apparì dinanzi, come in un sogno.
Massimo aveva altri in giri in programma, non sarebbe tornato con me.
D'altronde lui faceva parte di un'eccezione, qualcosa che in un viaggio del genere ti capita.
Ti deve capitare.
Con Martina invece era un discorso aperto. Erano ormai una ventina di giorni che non la vedevo e questo mi aveva forse aperto gli occhi.
Noi siamo quelle coppie, tendenza, quelle che ti ritrovi nei bar più in, nelle serate glamour.
Coppie che fanno scalpore.
E forse questo viaggio l'aveva destabilizzata un po'.
Trovarci separati cosa avrebbe fatto pensare alla gente?
No, non era una cosa bella. Una cosa da salentino vero.
Dissi a Massimo di aspettarmi un attimo in auto prima di dirigermi verso l'aeroporto.
Erano nove le ore di differenza con l'Italia e le ultime ore d'America.
Dovevo chiamarla, dovevo capire meglio il nostro futuro.
E poi mi sarei regolato.
Su quale maschera indossare una volta tornato.
"Pr…pronto?!"
Una voce impastata dal sonno.
Tutto d'un fiato le sparai le mie perplessità.
"Marti lo so che è tardi o è presto, lo so, però ti devo dire una cosa: tu vuoi realmente vedermi? Questo viaggio è stato importante per me… Mi ha fatto capire tante cose… Tante.
Io ti voglio rivedere, poi prendere e partire di nuovo. Ti prego dimmi la verità: ,i vuoi o no?"
Il cellulare mi mandò un segnale di avviso di chiamata.
"Aspetta, avviso di chiamata, scusami!"
Era mia madre.
"MARCU MIU! Hai pigliato tutto, no? Tutto - Tutto, no? Non è che ti sei dimenticato niente no?"
"Mamma sì, ho…"
"Ecco, t'ha scerratu qualche cosa.. la sapia mannaggia san pistone!"
"Mamma no! Ho preso tutto…"
"Lu regalu alla zia Daniela? Lu ziu Antoniu? La nonna? Lu Vittorio? L'Osvaldo ca te porta sempre gli zanguni? Lu Giovanni della macelleria ca te da li turcinieddhi?"
Il cellulare squillò di nuovo.
Era mia nonna.
"MARCU MIU sta torni??"
"Nonna ma non stai dormendo?"
"None m'ha chiamatu mammata e m'ha dittu ca stavi subbra insbruk… m'ha dittu chimalu moi ca se non sparisce subbra li aerei…"
"Ah grazie nonna… Tanto tra poco ci vediamo!"
"Se lu signore ole! Statte attentu ca osce la commare Angela ha dittu ca sta cadenu nu saccu de apparecchi! Cu tutti sti Rom!"
"No, tranquilla Nonna… Mo torno che…"
Un altro avviso di chiamata.
Era mio padre.
"Marco."
"Papà."
"È andato tutto bene?"
"Sì, papà."
"Femmine?"
"Ho Martina."
"All'età tua ne avevo venti."
"Ma se all'età mia avevi già due figli? Tradivi la mamma, quindi?"
"Tu non hai 19 anni?"
E squillò il telefono di nuovo.
Era Massimo
"Massimo ce buei?"
"Comu ce buei? Me sta scinde lu latte! Te movi!?"
Chiusi tutte le chiamate.
Lasciai solo Martina.
"Martina, allora?"
"Marcu si sciutu da Tiffany?"
"Sì…"
"E allora puoi tornare. Te sta spettu bella tonica. Tutta pe tie!"
E partì nuovamente il riff.
SE QUESTO È IL RITORNO
MMH MMH
POI TANTO MALE NON È.
16 Novembre.
Ovvero: ultime ore del viaggio.
Massimo mi lasciò prima di arrivare all'aeroporto.
- Marcu miu si statu nu frate comu nu vagnone delle vele, pe mie. E dhai sai quanti su forti li cristiani!
- Grazie Massimo…
- Quandu tornu ni sentimu!
- Sì… dai…
E poi si accarezzò il tatuaggio del bacio sul collo e gli disse "dinne ciao cumpà!"
Le labbra si mossero e io dissi a me stesso "non sta succedendo veramente, non sta succedendo veramente."
Poi mi svegliai di soprassalto sull'aereo.
Mi chiesi: Massimo?
Il passeggero accanto mi guardò stranito e anche un po' spaventato.
Non dovevo avere un aspetto fresco e riposato e pensai di avere gli occhi rossi, mi capita spesso quando non dormo bene. Ma in quel momento era Massimo il mio pensiero.
Provai una strana sensazione, quasi di disillusione. La stessa che ti colpisce quando ti svegli da un lungo sogno e pensi fosse reale. E ci rimani male. Malissimo.
Realizzai dell'importanza del compagno di viaggio, avevo forse bisogno di un alter ego che non mi facesse dimenticare della mia terra natale.
Perché per quanto lontana non lo è mai realmente nel tuo cuore
E qualcosa di ancora più puro, la felicità dev'essere condivisa.
Massimo, dissi di nuovo.
Un nome le cui lettere si persero nell'eco della mia mente.
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Da una certa altezza sembrò fuggire via la città bollente dalle mille luci.
L'aereo puntò l'immenso blu e sparì.
Conosco un tipo a Lecce.
Lui è sempre incazzato perché vive nella terra più brutta del mondo, racconta.
Non vede l'ora di andare via ma sempre lì resta.
E ogni tanto continuo a sentirlo al telefono, gli parlo, e le uniche cose che mi dice sono "odio dove vivo".
Non l'ho mai capito sinceramente.
Per me Lecce e il Salento sono le uniche cose belle della vita, ce le ho tatuate sulla pelle e ora, qui dopo l'America, tra le creste degli sbuffi delle nuvole, me le porto con me.
No, è una cosa che mi manda in bestia, me face 'ncazzare.
Come si fa ad odiare la propria terra?
Terroni, ci chiamano. E lui stesso ci chiama.
Ma io ho imparato in questo viaggio che lontano dal Salento le persone non si conoscono, non si toccano. Non si guardano. Le vedi sempre impegnate.
Si abbronzano nei solarium, non hanno il sole.
Anche se è in alto nel cielo, risplende color plastica, riscalda la pelle, è vero, ma non è quello salentino.
Nei negozi se non conosci nessuno davanti non puoi saltare la fila.
Quel mio amico non lo capisco, lui vuole lavorare, vuole andare via, non vuole vivere la vita salentina con i suoi genitori.
In America mi raccontano, i ragazzi vanno via da casa a diciotto anni, i genitori difficilmente li costringono a rimanere. Anzi: sembra li caccino via.
E invece quel mio amico è ancora con i suoi e annaspa, urla, scalcia perché non riesce ad andare via.
Ma come si fa a vivere senza la mamma, mi chiedo.
Senza una donna che ti cucini, lavi e stiri le camice, che ti apra la scatoletta del tonno in caso tu ti tagli. Una donna come la mamma non esiste da nessuna parte.
E tu vorresti lasciarla, caro amico mio, dici perché sei ormai grande?
Come puoi pensare di essere grande nel Salento.
Siamo eterni bambini qui.
Viviamo nella terra dei colori dell'infanzia.
Del mare.
Della felicità.
Non serve lavorare da noi.
Perché ci sono gli adulti che lo fanno.
Già.
FINE
marcodemitri®
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Con il vero Massimo Decimu Meridiu!
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