mercoledì 22 aprile 2015

COME SONO SOPRAVVISUTO IN AMERICA SENZA CAFFÈ IN GHIACCIO E GUENDALINA. [INTERMEZZO]

*
Ci sono diverse cose da conoscere su questo viaggio. 
Molte le leggerete, altre ve le scrivo qui:
Le foto sono state realizzate in tutto o in parte da un amico, un compagno di viaggio, che ringrazio. Il mio telefono ha sofferto di gravi ammaccature sul vetro della fotocamera e non ha retto il ritmo, l'emozione, l'enfasi. 

Questo è un reportage, come in molti avranno capito, ironico ma salentinamente vero. 
Ho solo trattato l'argomento immergendomi nei panni di un salentino medio.
Per conoscere le singole parti cliccate sui nomi delle città. 
Per chi non capisse le parole dialettali, invito a cercare su questo sito

Ultimo giorno del viaggio, ore 20 e 30.

Ste segge su belle propriu,

penso mentre con una mano ne tasto la ruvidezza; sì, mi ricordano quelle a casa dellu Totu per il battesimo della figlia.
Un uomo accanto a me tossisce, ha i baffi, la pelle scura, basso e tarchiato si ingozza di Nachos. Poi esclama qualcosa e sorride compiaciuto. Dal camioncino di fronte a me, invece, giunge una voce in inglese e a seguire una in spagnolo: number eight, número ocho.
Oddio, è il mio turno. 
È arrivato il mio Burrito, il secondo della mia vita. 
È una palla enorme ripiena di fagioli, riso, carne e salsa guacamole; attorcigliato nell’alluminio ha le dimensioni di un neonato.

Più lo guardo, più immagino a come sarebbe stata la mia vita se fossi nato e cresciuto qui, in America: a Los Angeles.
Ma a dire il vero è come essere a casa.
Mangiare al camioncino di immigrati, le sedie in plastica, l’aria calda bagnata di umido e la tristezza negli sguardi.
Sì, è come andare al PD in una calda giornata di agosto.

Flash, qualche giorno prima. 
Ci siamo io e un'auto.
Noi due con tante skittles. 
Noi due diretti per: 



COME SONO SOPRAVVISSUTO NEGLI STATI UNITI 

SENZA CAFFÈ IN GHIACCIO E GUENDALINA 



SAN FRANCISCO
[Seconda Parte]


PACIFIC HIGHWAY
(Intermezzo)



11 novembre.

Quando a San Francisco mi recai alla Hertz erano le 7 e 30 del mattino.
Il cielo di novembre era gonfio di pioggia, e ad essere sincero quel clima mi mise un po' d'ansia. Il cuore mi batteva forte, non sapevo nulla di strade e autostrade americane e nemmeno di auto.
A Lecce scorazzavo per le strade con la mia Panda 750 modificata con motore Abarth da Carmelino, il mio meccanico di fiducia.
Finii per amarla più di Martina.
Ci avevo messo anni per renderla spierta, esattamente dopo il primo fast and furious. Ci avevo aggiunto le minigonne, gli spoiler. Un neon blu dentro e una croce di cristo nostro signore appesa allo specchietto retro visore.
Quella croce me l'aveva regalata la nonna Giovanna per la comunione, ma i miei furono costretti a togliermela quando notarono una scoliosi. Il dottore disse, troppo pesante, mia mamma gli rispose, con gesù christu an piettu idi comu se fermanu le vagnone, diu perdoname se fazzu peccato.
Alla fine, però, vinsero gli assistenti sociali e io dovetti toglierla.

Al bancone al tizio orientale sudava la fronte, gli occhi schizzavano freneticamente.
Prese i miei documenti, mi chiese qualcosa a cui risposi come un contadino di Taviano, "eh.. cen… wha.. comu se dice.. I ham…", infine mi puntò il dito guardando alle mie spalle.
Con decisione, fermezza.
Con forza.
Obbligandomi a voltarmi.
E vidi un'auto meravigliosa.
Grande.
Bianca.
Lucente.
Col muso abbassato.
Con il posteriore alto.
Era la femmina che ti trovi al Tabù di Porto Cesareo.
La ragazza in perizoma perennemente a prendere il sole.
Lei, longilinea, quella per cui ti spacchi di palestra tutto l'anno, per cui ingurgiti polverine proteiche.
Quella per cui ti irriti il colon per il troppo cibo integrale.
"Ha squagghiare pe li addominali!"
Lei, ferma, lì, immobile.
Mi venne duro.




Uscii con la bocca aperta, la saliva che colava.
La raggiunsi e iniziai a tastarla con delicatezza. L'annusai.
"Per diu, ce bete!"
Ci entrai delicatamente, per non farle male e sprofondai quant'era grande.
L'odore di pulito.
Di feromoni petrolchimici.
"Matonna mia, comu se dduma?"
Provai a baciarla, niente.
Allora le inserii le chiavi con violenza, "alle donne piace" mi ricordai di averlo sentito da qualche parte.
E si accese, si illuminò tenue, poi forte. Vibrò lei, tutta, il mio sedere.
Gorgogliò amore.
Bene, Marco, e ora?
"Li amerigani nu capiscenu nienzi de machine, già ca tenenu le marce automatiche."
Le marce automatiche, esatto.
Provai a partire.
E fu un disastro.
Come la prima volta.

Le auto americane hanno due pedali: freno e acceleratore.
Perché non hanno frizione.
Ma il problema che si pone per un italiano è il pedale della frizione, appunto.
Uno, in automatico dirige il piede dove normalmente c'è quel pedale, infatti.
Ennò, lì c'è il freno, per l'appunto.
E bam, la macchina inchioda.
E bam, ti ritrovi catapultato sul cruscotto.

Porcu diaz.
Mi ritrovai sul cruscotto svariate volte prima di capire che:
1) La frizione non esiste.
2) Il pedale del freno è enorme.
3) Il freno è tirato al massimo.

Bella, bellissima sei però, le dissi.
Adesso fammi guidare de garbu.
Impostai il navigatore per la pacific highway.
E partii.

Fino a quando mi accorsi che c'era qualche problema.

Vroom. Vroooom. Vrooooooooom.
Dopo quarantacinque minuti mi sembrò strano che l'auto facesse sempre e solo un rumore.
Uno solo.
Vroooooooom.
Dissi a me stesso di non preoccuarmi.
"Cavalli americani", è normale facciano gli sboroni.
Sì, marco, non è normale che non riesca a superare gli ottanta chilometri orari senza sentire l'auto che fa fatica.
Mi accostai, presi il libretto delle istruzioni.
Buttai il libretto delle istruzioni.
Guardai l'unica marcia e cercai di capire.
C'erano una A e una M.
A ed M.
Mmh.
E poi l'illuminazione: e se ho fatto il viaggio in prima perché ho impostato il cambio sequenziale?
Vediamo.
Rimisi in moto l'auto e iniziai a correre.
Provai a cambiare in A e…
… la magia.
L'auto non faceva più quello strano rumore.

Insomma, avevo viaggiato per quarantacinque minuti in prima.
Cavalli americani.
Cugghiuni salentini. 






Avevo impostato delle tappe data la lunga traiettoria da seguire, più di duemila chilometri. 
Carmel.
E infine dritto per dritto fino la megalapoli. 

"Sulla strada stai attento alla polizia, ti spara se corri troppo..."
Mia madre.
"… fiju miu sta mangi?"
Mia nonna.
"… sacciu ca tie fuci comu li pacci. statte attentu ca addhai te sparanu…"
Mio padre.
"se t'ammazzi o t'arrestano io mi prendo lo stesso i regali di Tiffany eh."
Martina.
E io lasciavo correre, fuggivo via da questo mondo.
E ci avevo preso gusto. 
E molto.




Ogni occasione era buona per sbirciare il più possibile fuori dal finestrino. Mi godevo uno spettacolo splendido. Anche se ero in parte abituato. Il Salento coast to coast offre una visuale straordinaria, soprattutto l'estate, col canto delle cicale, l'odore di erba secca e lo sfondo macchiato di arbusti.
Correvo sulla mia Dodge Charger 3000, correvo puntando al massimo l'acceleratore, incastrato nelle file ordinate dell'autostrada californiana. I veicoli ordinati sulle proprie corsie, così grandi e così tranquille.
C'avevo più paura a guidare da Lecce a Napoli che da San Francisco a Los Angeles.
Esattamente.
Quelle strade enormi non mi mettevano ansia.
Ero così contento di guidare, col mio cambio automatico e i miei occhiali da sole.
Ero partito per Los Angeles e più lo ripetevo a me stesso e più non ci credevo.

Mi sentii in diritto di rallentare, sempre di più, finché quasi non mi fermai. Mi suonarono e allora mi spostai nell'ultima corsia sulla sinistra. Ma anche lì mi strombazzarono. Era un camion.
Insomma capii che le corsie avevano un senso.
A destra i veicoli lenti a sinistra quelli veloci.
E mi misi in mezzo, dunque.
Avete presente la tangenziale di Bari? Bene.
Non c'entra nulla.
Se lì provi a mettere la freccia ti sparano per principio.
"St' qua m'ha mess la frecc. È arrivato u' trmon?!"
Qui, invece, se la metti rallentano per farti passare.
Uao, dissi.
Uao, ripetetti.
A questo serve la freccia.

"Martina ti parlo da una dodge charger…"
"De dune?"
"UNA DODGE CHARGER.
Gli occhi mi brillavano.
"Ma de ce parli??"
"Marti è una macchina. ENORMEEEEE!"
"Ah."
"Come va? Che fai?"
"Sto vedendo Pepa!"
"Pig? A peppa pig ti sei ridotta??"
"MA SI SCEMU?! Quella del Segretooo! Non mi ascolti mai!"
"Ah scusa. Beh, come va?"
"Devo chiudere che Pepa non è morta!!!"
"Pronto? Pronto??"
Chiusi e continuai a guidare.
Davanti a me la strada.
La vita.
(Per quello che mi era costato 'sto viaggio.)

Decisi di fermarmi in un piccolo paesino di passaggio.
Un paesino colorato di Murales. 

Santa Cruz. 






Ritratto di "Vagnone ca more de fame"

Proseguii per un centinaio di chilometri.




Un po' di paesaggio uggioso fino a quando non attraversai Carmel.

Qui accadde qualcosa che cambiò il viaggio. 

Definitivamente. 


Venne come un calcio di rigore sbagliato da Chevanton. Mi venne alla nuca, all'improvviso. 
Quella sorpresa mi colpì come nessuno o quasi aveva mai fatto.

Sulla strada il navigatore mi segnalava ancora molti chilometri alla meta. Erano le quattro del pomeriggio e il mio stomaco brontolava. L'emozionante tour lungo la costiera del Pacifico mi aveva lasciato talmente di sasso da farmi dimenticare di pranzare. 
E questo non era da me. 
A quel punto decisi di fermarmi nella prima città che avrei trovato.
Io, solo. 
Un pasto al volo mi promisi. 
Sì, me lo promisi. 
Ma no, non fu al volo

Carmel era attraversata dall'autostrada. Conservava la conformazione da città del far west e lo si poteva notare dalla disposizione delle case e del centro commerciale. Enorme, che si stagliava alto e imponente accerchiato da altri negozi. Piccoli, come se si inginocchiassero al suo cospetto. 
È un po' come l'IperCoop di Surbo. Dove Surbo è il far West e il centro commerciale l'unica cosa che ricordi di importante. 

Parcheggiai l'auto, la mia bellissima auto, le feci una carezza, lei mi suonò il clacson e io le dissi che sarei tornato a breve. 
Scelsi una tavola calda, di quelle col vetro sulla strada, di quelle con le poltrone lunghe e morbide e rivestite di tessuto plasticoso. 
La cameriera arrivò gentile e premurosa per lasciarmi dell'acqua e un sorriso e mi chiese se fossi pronto.
Io risposi "il solito".
Lei "hamburgher and chips?"
"Yeah!"
Mi guardò male. Ma capii il mio essere core preciatu
Mandai un messaggio a Martina nel mentre per comunicarle la posizione. 
Come un capitano amoreggia con la torre di controllo. 
"Martina sono in un posto molto figo. Mangio le solite cose. Il tempo di fermarmi e poi riprendo."
Stranamente mi rispose subito "Ok. Però non mandarmi messaggi a quest'ora che dormo. Poi mi si illumina il cell. Io mi alzo perché penso sia la promozione della Kiko e invece sei tu."
Mi scappò ad alta voce un Nu ne scrivi chiu nienzi, fanculu.
E poi la sorpresa. 
"NOOOOOOOOOOOOO."
Mi prese un colpo. 
"NOOOOOOOOOOOOO!!"
Un altro colpo.
"NOOOOOOOOON CI POSSO CREDEREEEEE!"
Un infarto. 
"SALENTINU COMU A MIE SINTI DDHA LA MATONNA??"
Pensavo di sognare. 
"MAESTROH, MA DE DU SINTI??"
Mi voltai, e c'era dietro di me un tizio alquanto losco. Uno di quelli che ti trovi a passeggiare sulla litoranea di Torre dell'Orso. 
Quelli che con fare atavico, indirizzano la loro mano sul pacco, lo tirano giù e poi su. Si arrovellano gli zebedei e poi, in una smorfia di soddisfazione mascolina, si compiacciono del loro essere masculi.
Aveva gli occhiali da sole grandi, con linee dorate, i capelli all'insù, e un vistoso tatuaggio di un bacio sul collo. Un tocco di classe come un rutto a fine pasto.
"Porcu dissi, de du sinti, cumpà?!"
Mi urlò spaventando gli altri presenti. 
"Eh… mato… di Lecce!"
"Ma de lecce lecce? o Lecce fore le mura?!"
"No.. Lecceh lecceh."
"Dha diu che bellu. Nu paesanu a quai! A du sta bai?? Se me possu permettere!"
"Tranquillu beddhu. Sto scendendo per Los Angeles."
"NAAAAAA E VABENE ALLORA OSCE LU SIGNORE È RRANDE. PURU IOU!"
"Ma guarda te! E come vai?"
"Come AU?? All'ampete no?! Chiedu li passaggi comu pe lu guendalina!" 
Rise muovendo il collo.
Muovendo ll tatuaggio. 
E a quel punto sembrò che le due labbra mi parlassero.
Che mi esclamassero "sine moi a quai!"
"All'ampete? Scusa io ho la macchina. Ti serve un passaggio?"
"No.. dai… nu sia te disturbi… ma sine dai e gnu!"
"Come ti chiami?"
"Massimo de Giorgilorio. Ma li amici me chiamano Max Decimu Merisciu."
"Ahh come il Gladiatore?"
"Cene? None perce allu merisciu me fazzu dece CANNUNI. MPUNNAMU CHIANAAA!"

Decidemmo di festeggiare per l'incontro.



E fu un errore tutto questo. 
Ma lo scoprii dopo. Molto dopo.

Sembrava strano, io non avevo mai dato passaggi a nessuno nel Salento. Eppure mi sentivo in obbligo di aiutare Massimo. Li salentini s'hanno aiutare sempre, mi ripeteva Osvaldo, il vecchietto che nel BarRetto di Castromediano entrava solo per chiedere l'acqua e leggere il giornale.
Poi morì soffocato.
Lu fazzu pe tie Osvaldo mio. 

Il cielo sembrava perdere gradualmente quel grigiore per trasformarsi in un blu.

Ceruleo, rilassante.




La mano ce l'avevo da diverso tempo sul cambio, per darmi arie, ma quell'atmosfera con uno sconosciuto mi metteva un po' di imbarazzo.
Decisi così di rompere il ghiaccio.

- Massimo ti spiego il percorso, così, per chiarezza. 
- Dimme Marcu, dimme. Ah, idi ca iou nu parlu italianu. Solu dialettu dellu Salentu miu!
- E come hai fatto qui? Manco l'inglese sai?
- Iou? nu ce besegnu. Comunicu a gesti.
- A gesti?
- Sì, aggiu studiatu quistu: 
E mi passa questo foglietto stropicciato.



- E ti è andata bene finora?
- Alle vagnone in piace quando ne fazzu "tiè"!
E rideva, disegnando rotondità su una pelle paonazza. 
- Comunque noi adesso faremo la strada fino a elle ei (mi piaceva pronunciare LA, arrotondare le lettere per darmi un tocco sopraffino). E lì, io ho una camera in albergo. Tie?
- Iou? Vabbè mo bidimu. In caso chiamo e vedo se piji na doppia!
- Faci tutti tie?
- Cacertu.

E chiamò l'Hotell. 
Con Skype. 
Comunicando a gesti.
E ce la fece. 
Sì, ce la fece. 
Ora ero in camera con un'altra persona.
Un salentino.
Uno sconosciuto.



Un oceano di luci, serpenti colorati di rosso e giallo, un torrente di auto davanti a me. 
L'indicazione Los Angeles in alto, sovrastò per diverse volte la nostra auto. La superammo io e Massimu con gli occhi sempre più lucidi per l'emozione. 
"Beivuoch sta rriamu!" 
Massimo non aveva dormito per tutto il tempo, troppo eccitato diceva lui. 
Ma iniziai a pensare che si facesse di qualcosa. 
Ogni volta ci fermavamo per fare una sosta, diceva "I go for pisciare" e quando tornava, tirava su col naso. 
Che tra l'altro era ormai un punto enorme rosso. 
"Tutto bene?"
"Si si si si si!" 
Sì, per cinque volte ripeteva. 
Sempre. 
"Sì?"
Rideva a crepapelle e poi si lasciava andare a dei commenti sulla sua attività fisiologica. 
"Ho fatto una cacata assurda. Ora mi sento meglio. Putimu scire!"
"Ma tu ti senti a tuo agio a cagare in bagni diversi dal tuo?"
"Percé?"
"Mah, io a volte non ci riesco. Mi fa un po' senso!"
"Senso? Ca pelle subbra la plastica a mintere. Te setti e tac fatto!"
"Bah, sarà. Comunque possiamo andare?"
"Sine, ce sta spettamu??"
Era arrivato il momento che gli facessi una domanda. Così, per curiosità. 
"Vuoi guidare un po' tu?"
"Io? Mmh… No dai, me piace comu guidi tie."
Lo guardai. 
Sbattei le palpebre convulsamente. 
"Ti piace come guido io? Ce bete na giostra?!"
"Si propriu simpaticu! Sì, me piace comu guidi. Per la prima volta vedo un salentino che mette le frecce per sorpassare. O per girare! Non mi era mai capitato!"
"Ah vabbè ma io le metto perché mi piace il suono. Quel "tlak tlak". Dice Martina che si eccita quando metto la freccia. Ce su strane le vagnone!"
"Povera a tie ca t'ha ncastratu."
"E tie?"
"Iou? Ma si pacciu? Suntu salentinu, in California culle biiondone de beiuoch. Dici ca me ruvinu cu na vagnona sola??"
"Iata a tie!"
E poi si accarezzò il bacio sul collo. E mi fece un effetto strano. Come se quelle labbra si muovessero. Di nuovo? Mi chiesi. 
Marco le labbra non si muovono.

Per il resto avevo ancora due dubbi su Massimo.
Pensavo: e se non avesse la patente? E trovasse scuse per non guidare? 
Ma soprattutto: che cosa ci faceva in California? 
Queste domande svanirono in fretta, però, quando squillò il telefono.
Era Martina. 
Il nome "Love mio" sulla sua foto al mare. 
Per la prima volta mi salì un ansia addosso. 
E mi preoccupai.
Sono Salentino, sono in California: che cosa ci faccio ancora fidanzato? 
Ma anche questo pensiero svanì una volta che sentì la sua voce:
"Amò se nu me respundi subbitu quandu te chiamo te bruciu le magliette dellu lecce."




Quando il conto alla rovescia per la grande città era ormai iniziato, avvertii un po' di stanchezza.
I cartelloni verdi con le varie destinazioni indicavano un numero di miglia via via inferiori e sembrava volessero dire "mena, mena… MENA!". Ma io, che avevo guidato per circa cinque ore ininterrottamente, non ce la facevo più. No, non ce la facevo più.
"Massimu ue guide tie?"
"'Antorna?"
"Comu antorna? Mica hai guidato."
"No, nel senso ca 'ntorna me lu chiedi?"
"E beh."
"No, me piace comu guidi."
"'Antorna?"
"Comu antorna?"
"Nel senso ca pare me piji pe culu! Ue cu guidi si o no?"
"No."
"Ma percé?"
"Percè no!"
"Teni paura??"
"UN SALENTINOH NON TENE MAI PAURA. UL LECCE. SENZA PADRONI."
Misi una mano al petto ma gli chiesi comunque il perché di questa uscita.
"Così, me piace ricordarla."
"Ma la patente ce l'hai??"
"UN SALENTINOH VERO HA TRE MACCHINE A CASA. NON SI SPOSTA SENZA. UL SENZA PADRONI!"
Rimisi la mano sul petto e gli chiesi nuovamente il perché.
"Così, me piace ricordarla."
"Vabè meh, fermiamoci un attimo che prendo qualcosa da bere e poi dritti fino la meta.

E ci fermammo in una piccola stazione di servizio.
Il tempo di fare benzina e di prendere qualcosa da mangiare.
Erano circa le sei e mezzo del pomeriggio e mi sembrava di essere invecchiato per quanta stanchezza avevo addosso.
"Sta ba cacu eh!", urlò Massimo.
Gli feci cenno di aver capito mentre continuai a guardarmi intorno.
E attesi, attesi.
"Massimo appostu?"
"Sì sì sì sì sì."
Ci risiamo.
Uscì felice, gli occhi rossi e il tatuaggio sul collo rinvigorito.
"Ah, finalmente. Sì sì sì sì sì."
Sì.

Lo guardai perplesso e pensai ai giorni che scorrevano veloci. 
Il tempo non si fermava, scorreva ininterrottamente; qualcosa in me iniziò a cambiare. Che interesse avevo a ritornare nella mia terra? Mi sentii male, però, al sol pensiero. Non era da me, questa malinconia. Io, che amo la mia terra, non era da salentino
Eppure ero lì, tra le leggere brezze delle auto sull'autostrada.
Tra le esclamazioni compiaciute, incomprensibili di una lingua non mia. 
Tra il sole morente alle spalle della stazione di servizio; una palla fluttuante, arancione, come di quelle mai viste. 
Un contrasto tra la natura verace e l'artificio. 
Un…
"Beh? Se sta face notteh! Te sbrighi??"
"Sì, arrivo…"
E andai lanciando uno sguardo a quei puntini luminosi, lontani.
Di fronte sulla grande autostrada.
Ma andai via da quell'intermezzo, lasciando un briciolo di ansie e paure. 
Per un ritorno che lentamente diventava indesiderato




Qualche ora prima di partire per gli USA. 
Marco mo che parti non dimenticarti di me. Fatti sentire sempre. Sempre. Sempreeee. 
Ok Marti, ma vedi che non è facile. Devo fare abbonamenti, schede telefoniche ecc…
Non me ne frega niente: fatti sentire. 

Qualche ora prima di arrivare a Los Angeles. 

Marti?
Di nuovo mi chiami??
Ma se mi hai detto di farmi sentire sempre.
Sì, vabbè ma mica sempre sempre eh. La Ludo mica si sente con l'Andrea ogni secondo!
Ma se abitano insieme!
E che c'entra! Intanto non si sentono e si asfissiano!
Asfissiano?? E vabè scusa allora.
Vabè dove sei?
Sono quasi arrivato!
Appost.

No, non era tutto apposto.
Affatto.

marcodemitri®


[Continua con la quarta e ultima parte tra una settimana. Ve lo giuro, sarà l'ultima!]

venerdì 17 aprile 2015

Caligola di Salvatore Della Villa [COMMENTO TEATRO]

Ieri ho visto l'anteprima di Caligola di Salvatore della Villa. 
Questo il mio commento. 


"Ma non sono pazzo e posso dire perfino di non essere mai stato così ragionevole come ora. Semplicemente mi sono sentito all'improvviso un bisogno di impossibile. Le cose così come sono non mi sembrano soddisfacenti. [...] È vero, ma non lo sapevo prima. Adesso lo so. Questo mondo così com'è fatto non è sopportabile. Ho bisogno della luna, o della felicità o dell'immortalità, di qualcosa che sia demente forse, ma che non sia di questo mondo."

Caligola fu un mostro, assetato di potere.
Ma anche un uomo, forse il più uomo tra tutti i suoi sudditi.
Il cuore trafitto per la morte della sua amata Drusilla lo fece impazzire.

Salvatore Della Villa e la sua compagnia mettono in scena il personaggio di Caligola, tratto dal capolavoro di Albert Camus.
Nello sfarzo e nello scempio etico e morale della politica nostrana, l'attore, in veste anche di regista, sviluppa  l'opera adattandola nella nostra epoca e incastrandola perfettamente.


Il racconto di un uomo folle ma profondamente umano. 

"Non lasciarmi, Drusilla. Ho paura. Ho paura dell'immensa solitudine dei mostri. Non andartene."

Carico di simbolismo, di passione e di inquietante vicinanza con i più recenti dittatori, Caligola respira di una forza drammatica potente e vigorosa, tragica e distruttiva. 
Si spoglia e si veste di simboli l'imperatore romano, di casacche, di camice e di divise. 
Il regista attore costruisce il personaggio con un abilità corporale, una profonda consapevolezza della scena.
E agita il corpo, provoca e si dimostra a suo agio in un sesso volgare e violento. 
Della Villa dirige e prende possesso della scena, senza mai strafare o gigioneggiare per ego, lasciando così spazio ai suoi co - protagonisti. 
Gli attori vestiti dei panni moderni, creano le antitesi della mostruosità della follia e dell'inganno. 
Della paura e del coraggio. 
Il tutto racchiuso in una direzione del palcoscenico con effetti sonori roboanti, fumi e due bellissime trovate meta teatrali. 
Che imbastiscono un'atmosfera mesta e ansiosa fino la fine.

Un finale tristemente già scritto fin dall'inizio. 
Il finale inarrestabilmente funesto per chi gioca con la libertà degli uomini. 

Appuntamento a quest'estate!

marco de mitri ®