lunedì 25 febbraio 2013
Oscar 2013 [Commento e analisi]
Nel panorama politicamente corretto dell'Academy questa edizione si è rivelata abbastanza prevedibile ed in un certo senso soddisfacente.
Un'iperbole resa perfettamente dall'espediente del collegamento con Michelle Obama che ha assegnato il riconoscimento più importante ad Argo: un film che fa del rapporto cinema - realtà un subdolo meccanismo di compiacimento e accettazione, un modo per dire che la finzione cinematografia è più utile di quanto si possa immaginare e sottolineando - ma che ve lo dico a fare? - il democratico indirizzo Holliwoodiano.
Insomma gli anni del dissenso a Bush sono ormai lontani, polverosi, irraggiungibili.
Una cerimonia affidata alla vivacità poco convenzionale di Seth MacFarlane che trascina e diverte con sketch di puro nerdismo e solita ironia anti sionista.
L'unica sorpresa della serata è stato il premio per miglior regia assegnato ad Ang Lee (Vita di Pi) che l'ha strappato a Steven Spielberg; forse un modo per dire gentilmente "basta" al suo cinema caritatevole.
Per il resto Daniel Day Lewis poteva anche non presentarsi perchè l'oscar era già nelle sue mani; è lui l'artista puro e semplice che si è imposto - ma non c'era bisogno di riconoscimenti - come il miglior attore protagonista di tutti i tempi; meritato quello per miglior attore non protagonista a Christoph Waltz per la straordinaria interpretazione del dottor King Schultz in Django e sempre rimanendo nello stesso film un contentino a Quentin Tarantino per la miglior sceneggiatura originale, un premio meritato se paragonato al furto di Mark Boal nel 2010 con il sopravvalutato The Hurt Locker ma un po' meno per scrittura in se; scontato il premio ad Anna Hathaway per miglior attrice non protagonista, quelli miglior effetti speciali a Vita di Pi e quelli artistici per Les Miserables e Anna Karenina - forse avrebbe meritato qualcosa in più -.
Forti dubbi per la migliore attrice protagonista a Jennifer Lawrence (Il lato positivo) e miglior film d'animazione a The Brave, il lavoro con meno personalità della Pixar.
Discutibile anche quello per miglior fotografia rubata da Vita di Pi a due gioielli come Skyfall e Django: opere artigiane e con poca elaborazione virtuale.
Ma come quasi sempre accade pochi se non addirittura zero riconoscimenti alle opere più feroci e critiche; ed infatti nessuna premiazione vera per l'ammiccante anti - democratico lavoro della Bigelow (Zero Dark Thirty), lo struggente Amour di Haneke - per me il miglior film dell'anno - e il malinconico Paranorman - il miglior film d'animazione dopo Ralph -.
Infine non mi sento di accusare eccessivamente questa edizione perchè da una parte si sa come funziona il mondo di Hollywood dall'altra poteva andare persino peggio: facendo vincere Lincoln o il paraculo Re della Terra Selvaggia.
Ben fatto, dai.
marcodemitri®
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sabato 23 febbraio 2013
Gangster Squad [Recensione]
La grande versatilità della figura del vigilante permette di contestualizzarlo in qualsiasi modalità ed epoca e se ci aggiungi l'avviso "tratto da una storia vera", il prodotto è bello che servito.
In un'epoca in cui abbiamo bisogno più che mai di figure positive che operano al limite della legalità per sconfiggere il male Gangster Squad non può che essere un'idea.
Mal riuscita, però.
1949.
In una Los Angeles colorata e sporca, Mickey Cohen (Sean Penn), ex pugile, si impone come il più potente criminale della città. Con la volontà di sottomettere anche Chicago, il boss divora qualsiasi ostacolo e sottomette il corpo di polizia. Ma l'onore e l'incorruttibilità del sergente John O'Mara (Josh Brolin) lo porteranno ad essere il scelto dal capitano Bill Parker (Nick Nolte) come capo di una task force speciale con il compito di porre fine al regno di terrore del malavitoso.
Questo film è la chiara dimostrazione di quanto sia difficile e forse impossibile girare una pellicola classica con espedienti moderni; perchè risulterà sempre un prodotto goffo, ridicolo, scimmiottante di un modo di fare cinema che non esiste più.
Ora, capisco che il rallenty sia figo ed emozionante ma a meno che tu non stia giocando a Max Payne non puoi inserirlo senza una logica. Non puoi, punto.
Manca poi il senso del paesaggio, della frontiera, il tocco carismatico degli attori e di grandi personalità dietro la macchina. Si ha continuamente l'impressione di conoscere già l'esito del film e non si avverte minimamente quel pathos caratteristico del genere.
Ci provò anche Mann con Nemico Pubblico e si fece del male.
Quindi a Ruben Fleischer cresciuto con spot pubblicitari e video musicali non capisco come mai gli abbiano affidato la regia: c'è persino una scena incomprensibile. Ha riunito poi un cast importante e lo ha diretto nel peggiore dei modi; dall'interpretazione di Sean Penn alla Robert De Niro a quella di Josh Brolin alla Russel Crowe risulta il tutto vuoto e impersonale.
Una sceneggiatura tra l'altro banale e con linee di dialogo poco originali, sembra che il film sia continuamente sotto pressione per una sfida tra antico e moderno: sono palesi i riferimenti a Gli Intoccabili e il cinema di Hawks. Fotografia poi alla LA Noire e poco armoniosa con in sottofondo una colonna sonora dai suoni industrial Zimmeriani.
Non si può svecchiare il classico se non si ha maestria del genere è una regola imperante quasi quanto quella di "non si parla di cose che non si conoscono".
marcodemitri®
venerdì 22 febbraio 2013
Die Hard 5 - Un buongiorno per morire [Recensione]
Lo dico fin da subito: sarò veloce nel commentare questo ennesimo scempio Hollywodiano perchè sinceramente non c'è quasi nulla da salvare, anzi, ce ne sarebbe fin troppa da recriminare.
John McClane (Bruce Willis) scopre che il figlio John McClane Jr. (Jai Courtney) -che fantasia (ndr) - sta per essere processato in Russia con l'accusa di terrorismo e per salvarlo si dirige nella ex nazione rossa. Ma la vacanza del nostro eroe sarà interrotta stavolta da uno scontatissimo piano criminale in cui il figlio è apparentemente immischiato.
E quindi "Yippee-ki-yay, motherfucker!"
Con il quinto pessimo, brutto e scemo - posso dirlo, vero? - capitolo di Die Hard si può dire di esser giunti al punto del non ritorno.
The End.
Cala il sipario.
Basta, insomma.
Una vero buco nell'acqua per una saga che ha fatto da spartiacque per la rivisitazione dell'anti - eroe moderno e non solo: i suoi sequel si sono dimostrati all'altezza dell'orginale.
Qui ci troviamo invece con una pellicola in cui esplode qualsiasi cosa; dove si possono trovare armi, tute di contenimento e binocoli in auto parcheggiate; ci si azzuffa in inseguimenti no sense che durano ore e con poliziotti sempre più scemi - ok, negli action non hanno dignità, però dai, fateli morire con più stile.
Sono consapevole poi del fatto che in questo genere di film la sceneggiatura non è fondamentale perchè con una regia ben fatta si può ottenere un buon prodotto: i casi di Fast and Furious 5 e Transformers 3 lo dimostrano. Ma qui non mi sento di salvare nemmeno questa; perchè John Moore, sulla mia lista nera per quell'obbrobrio di Max Payne, si affida ad una messa a fuoco ipercinetica che se non sei Tony Scott non te lo puoi permettere. Così se da una parte ci sono dialoghi ridicoli con uno snaturamento del nostro eroe pelato preferito, che fa sempre la sua figura anche con battute alla Homer Simpson, dall'altra ti trovi zoommate vorticose; e quindi no, non ci siamo.
Un peccato per lo sceneggiatore Skip Wood, che ci ha deliziati con Codice Swordfish.
Al tutto si aggiunge un casting completamente anonimo con un doppiaggio italiano che non aiuta.
In poche parole Die Hard 5 è un insulto all'intelligenza di John McClane e alla mia visto che ci ho speso soldi per vederlo.
Qui un breve riepilogo del film:
marcodemitri®
mercoledì 20 febbraio 2013
Vita di Pi. [Recensione]
Ang Lee, che ci ha abituati ad un cinema struggente ed elegante, segna il suo esordio nel 3D con un salto che lascia il segno e un punto di vista sul misticismo.
Pi è il figlio di un proprietario di uno zoo in India.
Trascorrendo l'infanzia tra gli animali, si fa strada nei suoi pensieri l'idea che essi possano avere un'anima; il padre però, uomo razionale e scientifico, lo indirizza verso una strada contraria. A causa poi della situazione economica, la famiglia è costretta ad imbarcarsi con i suoi animali per il Canada.
Ma una tempesta distrugge la nave e uccide l'equipaggio: gli unici superstiti saranno Pi e una tigre del Bengala.
Durante l'inaspettato viaggio per l'Oceano Pacifico nascerà uno straordinario rapporto con l'animale.
Progetto travagliato per il casting, che a detta del regista doveva essere il più internazionale possibile, scelto uno sceneggiatore molto abile nella compilazione di storie strappalacrime e cioè David Magee, conosciuto per Neverland, il film fu completato nella scrittura nel 2010.
Tratto dall'omonimo romanzo del canadese Yann Martel, è un miscuglio di visioni mistiche e filosofiche unite ad un sapiente uso degli effetti visivi.
A differenza di una pellicola di formazione sopravvalutata come The Millionaire, qui, il tutto si sviluppa in una banalità non necessariamente stucchevole. Se la crescita mentale del giovane protagonista è incentivata e aiutata dalla razionalità acuta e ferrea del padre, per quella spirituale al contrario, assistiamo ad una esperienza diretta con l'oggetto. Lo sviluppo di un ragazzo è mediamente condizionato dalla famiglia, dalla società e dall'ambiente in cui vive; nel caso specifico del film si assiste ad uno scontro diretto con quello che è il vero significato di "crescita".
La narrazione centrale procede lenta e con tempi che lasciano allo spettatore la possibilità di interpretare al meglio alcuni elementi.
Un paragone azzardato ma non del tutto fuori luogo con l'Odissea perchè ci troviamo di fronte alle metaforiche difficoltà, rappresentate dalla tigre, della crescita di un adolescente in uno spaventoso oceano di incomprensione. Ma che possono benissimo essere anche quelle di un uomo che cerca la fede ma ha paura di non trovarsi sul giusto cammino.
Pi si ritrova infatti a dover combattere la solitudine e l'aiuto in questo caso viene dall'elemento "tigre" che con la sua ferocia lo mantiene vigile e attento a non cadere nella trappola dell'abbandono. Un rapporto dualistico, come nel più classico dei romanzi di Salinger, che porterà ad un lieto fine e non poche domande su ciò che si è visto.
Personalmente un film valido sotto ogni punto di vista ma che eccelle solo negli aspetti visivi.
marcodemitri®
lunedì 11 febbraio 2013
Chiude il Cinema Santalucia, un piccolo omaggio.
Quell'angolo.
Il tempo, come si sa, è cinico; spazza via il
vecchio per far posto al nuovo.
Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si
trasforma, appunto.
Ed è così che accade in una piccola e ridente
città dove uno dei più antichi pezzi della sua storia vola via, venduto come
fosse semplice merce di scambio.
Se i ricordi sono momenti ben precisi della
nostra esistenza, che siano legati a persone o cose poco importa; perchè non
molto lontano verrà il giorno in cui racconteremo ai nostri figli la storia di
un cinema che sorgeva accanto ad una pasticceria, in un angolo.
Quell'angolo.
Modesto, accogliente, carismatico il Santalucia
non odorava di marketing.
Nell’aria c’era il profumo di cinema d’altri tempi ed era come essere invitati da un lontano parente.
Conosciuto da grandi personaggi perchè ogni anno ospitava il Festival del Cinema Europeo, la sua era un’idea, un luogo di incontro più che un nome.
Ma adesso non c'è più.
Nell’aria c’era il profumo di cinema d’altri tempi ed era come essere invitati da un lontano parente.
Conosciuto da grandi personaggi perchè ogni anno ospitava il Festival del Cinema Europeo, la sua era un’idea, un luogo di incontro più che un nome.
Ma adesso non c'è più.
Al suo posto sorgerà un supermercato; di quelli
con il *bip* della cassa che ti trapana la testa e lo speaker al microfono che
urla cognomi incomprensibili.
Forse ti troverai a far la spesa in quella che
una volta era una sala e mentre con indecisione fisserai il banco frigo, pensa
che li sedeva un bambino a guardare lo spettacolo.
Annoiato? Divertito? Non potremo mai saperlo.
Annoiato? Divertito? Non potremo mai saperlo.
Nell’epoca della pornografia dei sentimenti non
c’è posto per l’immaginazione.
Dicono “Colpa della crisi” e “i biglietti costano troppo” ma i discorsi suonano vuoti e stanchi, ormai.
Nulla può giustificare il risparmio sulla cultura se si spendono molti più soldi per scommesse, lotto e affini: la coerenza non fa parte della nostra natura.
Perché le multisala, come i grandi magazzini, hanno tolto linfa vitale alle piccole botteghe, agli onesti avventori, alla vita di chi acquista per necessità.
Dicono “Colpa della crisi” e “i biglietti costano troppo” ma i discorsi suonano vuoti e stanchi, ormai.
Nulla può giustificare il risparmio sulla cultura se si spendono molti più soldi per scommesse, lotto e affini: la coerenza non fa parte della nostra natura.
Perché le multisala, come i grandi magazzini, hanno tolto linfa vitale alle piccole botteghe, agli onesti avventori, alla vita di chi acquista per necessità.
Capita quindi che quell’idea da “cinema
paradiso” sia solo un vago ricordo, che scompare inghiottito come luce nell’oscurità.
Dopo 63 anni, un altro colpo alla cultura, ancora una volta ne danno la triste notizia il signor nessuno.
E nel silenzio generale cadono le foglie, il vento non smuove le coscienze e il cielo è coperto dalle nuvole dell'indifferenza.
Non ci sarà più “quell’angolo”.
marcodemitri®
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sabato 9 febbraio 2013
ParaNorman [Recensione]
Non so se Tim Burton abbia visto questo film ma di certo l'avrebbe dovuto fare. Perchè avrebbe rimpianto i suoi vecchi lavori, magari trovato ispirazione per i successivi.
Paranorman non è una pellicola colorata e vivace, è angosciante, cupa ma di quelle che un qualcosa la insegna veramente.
La trama è meglio non svelarla perchè ha un piccolo colpo di scena iniziale che, nella sua banalità, riesce benissimo.
Si tratta di un ragazzino con un particolare dono. In virtù di questo, viene relegato a diverso e abbandonato a se stesso persino dai suoi stessi genitori. Ma la sua maturità, nonostante l'età, lo porterà a compiere l'impresa più importante della sua vita, salvando anche i suoi stessi e diffidenti concittadini.
Diretto da una coppia di registi Chris Butler e Sam Fell, e sceneggiato dal primo, si tratta di un'opera splendida in tutto e per tutto. Butler, che ha curato la direzione artistica di Caroline e la Sposa Cadavere, non rinuncia alla sua nera vena artistica. Il film è diretto con grande maestria e offre dei piccoli ma divertenti citazionismi provenienti dal mondo dell'horror e non solo.
Norman è un ragazzo solitario, confinato tra i diversi perchè ricco di un dono da molti ignorato e disprezzato. Ma è la diversità, ancora una volta, la molla che gli permette di capire la realtà: la crudeltà insita nell'uomo - gruppo sopperisce se nell'uomo - singolo. Un film con una sfiducia nell'umanità che non risparmia nessuno.
E così grazie ad un sapiente uso della sceneggiatura, i personaggi sono costruiti coerentemente.
Un concept design in stop motion artisticamente valido e ben reso dall'uso di una fotografia tetra e spenta.
Insomma "Un film che avrei voluto dirigere se avessi avuto meno soldi" citazione poco probabile di Tim Burton.
marcodemitri®
venerdì 8 febbraio 2013
Warm Bodies [Recensione]
Nell'era della pornografia dei sentimenti qualsiasi tipo di romanticismo frivolo e alla portata di tutti è commercialmente valido.
Gli esempi sono molti: negli Stati Uniti Twilight e 50 Sfumature di Grigio, nel Bel Paese Moccia e Muccino.
Talvolta può accadere però che nel marasma generale qualcosa di buono esca fuori, come in questo caso.
Ora, Warm Bodies non è un un film con un ritrovato senso artistico, sia ben chiaro. Più che altro nella sua classificazione a pellicola di genere sentimentale\fantastico ne esce a testa alta.
O con dignità, decidete voi.
Nel mondo, forse un'epidemia o un disastro nucleare, ha ridotto in zombie parte della popolazione. La situazione è drammatica e per cercare di arginare l'infezione in una città imprecisata è stato eretto un muro di confine. La resistenza è guidata dallo spietato Grigio (John Malkovich) pronto a tutto pur di vendicare la morte della moglie, vittima di una delle creature, e proteggere la figlia Julie (Teresa Palmer). Ma è durante una ricognizione che quest'ultima viene presa in ostaggio da R (Nicholas Hoult), uno zombie non del tutto "morto". L'alchimia che si innesca tra i due sarà centrale per l'inizio di una storia stranamente romantica ma epocale per curare l'infezione.
Jonathan Levine confeziona una pellicola che sorprende nel riuscire a mantenere una personalità senza scadere nell'eccessivo e melenso mondo dei blockbuster per teen - agers. Il talento del regista, già provato in 50\50, è evidenziato ancora una volta da una regia convenzionale ma bella per una storia, tratta dall'omonimo libro di Isaac Marion, che funziona nella sua ingenuità.
L'interpretazione dei protagonisti non aiuta a mantenere molto alto il nome del film ma ci pensa la storia.
Se in Twilight la versione del vampiro vegetariano e brillante è uno snaturamento servito da una sceneggiatura piatta e monotona, in Warm Bodies assistiamo ad una bella re - interpretazione, a volte hipster, di un classico dell'horror.
L'espediente che permette di mantenere l'umanità del personaggio in vita è rappresentato dal mangiare cervelli umani, attraverso i quali lo zombie ne assorbe i ricordi.
Lo status di non - morto quindi in accordo con la filosofia del racconto è dettato da una condizione di assopimento della sensibilità umana; ed è nell'atto del mangiare che resta vigile seppur dormiente il suo intelletto.
Un passo reso molto bene e, non senza ingenuità, costruito con l'utilizzo di bei flashback e coerente nel finale del film.
Dunque se le premesse, dettate soprattutto dall'ammiccante trailer, dalla scelta dei protagonisti e dallo zampino dei produttori di Twilight, avevano condannato il prodotto ancor prima che uscisse, mi sento di spezzare una lancia a favore.
Sottolineando e risottolineando il motto del "mai dire mai al marketing americano" sembrerebbe tra l'altro uno dei pochi prodotti per il pubblico generalista a non necessitare di sequel e prequel.
Ne dubito ma ci spero.
marcodemitri®
giovedì 7 febbraio 2013
Lincoln [Recensione]
Il vero protagonista è al contrario la parola ed è questo il punto su cui basare la scelta se andare a vederlo o meno.
La pellicola si apre con una battaglia, che oltre ad essere fuorviante per lo spettatore è anche un modo per presentare il personaggio. Ed infatti con il solito tocco, patinato e geniale, Spielberg permette l'ingresso del Presidente, uno statuario e irriconoscibile Daniel Day Lewis. Le battute iniziali sono ragionate e perfette per costruire il film: il dialogo tra Lincoln e due commilitoni, di cui uno nero, la rabbia per una guerra inutile e la scioltezza con cui il politico rincuora i suoi uomini.
Il film viene fuori, così.
L'abolizione della schiavitù, come miccia che accende gli animi di due modi di visioni contrapposte tra Nord e Sud, è solo l'anticamera di una politica selvaggia e poco risoluta. È grazie ad un Presidente, Lincoln, che, con una grande arte della retorica e tanto carisma, la fine della guerra giunge: dopo aver però impoverito e decimato la popolazione.
La morte che lo colpirà alle spalle quella sera al teatro sarà solo un modo per consegnarlo anticipatamente e definitivamente alla storia.
Se c'è una cosa che Spielberg ama è quella di raccontare storie di oppressione. Gli piace sviscerare, descrivere e consegnare al pubblico mastodontici prodotti di bravura tecnica ma melensi, infarciti di un moralismo sfrontato e inutilmente strappalacrime. La straordinaria bravura del regista la si è vista però in opere dal tema del tutto differente o quantomeno maggiormente libere dagli schemi imposti dal commercio. Fu il caso di un capolavoro come Lo Squalo, che sembra ormai lontano anni luce dal suo modo di trattare il cinema. Ora, invece, ci troviamo di fronte ad un regista in parte compromesso dalle sue stesse produzioni. E parliamo della sua collaborazione disastrosa con la LucasFilms; sì, mi riferisco al quarto Indiana Jones, ad esempio.
Lincoln è una via di mezzo. È un film riuscito dal punto di vista tecnico, con una regia molto bella e una fotografia eccelsa, ma deviante per contenuti.
Come scrivevo poco prima, la vita del presidente è solo un modo per fare della parola la vera protagonista.
Anzitutto usata come vettore per cedere al potere. I dialoghi sono incentrati ad arte sul come raggiungere determinati obiettivi, al di là del bene e del male. Il messaggio è ancora una volta: il bene emerge solo con il compromesso di personaggi carismatici. Il problema del film dunque non è l'essere solo troppo prolisso, quanto il paternalismo che ancora una volta Spielberg sceglie come strumento per veicolare nel suo cinema una stucchevole sensibilità.
Il personaggio Lincoln è rappresentato come un anello di congiunzione tra ciò che è in quel momento storico il "diverso" e ciò che lo combatte: il male, il villain di turno, l'ideologia economica sudista. Perchè per Spielberg il tutto si riduce ad un male radicato nella natura umana e dettato dal cinico progressismo scientifico, si potrebbe persino parlare di una fobia per il progresso.
Sorge eccentrico e assolutamente fuori luogo ma funzionale al discorso il paragone con un altro modo di rappresentare il male, quello di Django in Tarantino.
Mentre Spielberg filma la cattiveria degli antagonisti, affidandosi alla "scusa" degli eventi storici, perchè in loro prevarica quel determinato tipo di natura, in Tarantino il cattivo è il più delle volte l'imbecille di turno o spinto da motivazioni contingenti.
La catarsi finale è però illuminante: mentre nel primo il nemico scende a compromessi con la morale vincitrice non rinunciando però alla sua ideologia, nel secondo si muore in circostanze pressoché dettate dalla stessa volontà votata alla crudeltà e puerili, appunto.
Assodata la politica dell'Academy, il film ruberà premi ad altre opere che hanno come neo quello di raccontare storie anti convenzionali per un america da sempre incoerente.
L'unica grande merito che emerge è però Daniel Day Lewis, che a questo punto spero vinca la terza e più che mai meritata statuina.
marcodemitri®
sabato 2 febbraio 2013
American Horror Story Stagione 1 - 2 [Recensione]
Ryan Murphy è un tagliente e cinico personaggio del panorama televisivio statunitense. La sua è una sadica abilità nel dimostrare quanto problematiche e tossiche siano le relazioni umane, salvo poi costruire un finale apparentemente lieto.
Come da copione, insomma.
Per chi non lo conoscesse, è l'ideatore di Nip\Tuck. Volete altro? Bene, ci sono Glee, la trasposizione cinematografica del romanzo Correndo con le forbici in Mano, The New Normal e infine American Horror Story.
Che è anche il prodotto di cui vorrei parlare.
American Horror Story (da ora in avanti AHS) è una serie televisica del 2011 - fino adesso arrivata alla seconda stagione - che non ha mai brillato per originalità e credo che questo sia un dato risaputo. La sua grande forza è stata quella di saper miscelare con astuzia e un palese ammiccamento al pubblico mainstream, storie già viste in precedenti pellicole thriller - horror; servendosi di una sceneggiatura accattivante, una regia originale e un bel cast.
Tutto questo riguarda solo la prima parte, che a conti fatti è la migliore.
Dunque perchè seguirla?
Oltre i già citati pregi, come la riproposizione di tematiche appartenenti al folklore e alla cultura dell'orrore e una delle più belle sigle mai realizzate, c'è da aggiungere che ogni stagione ha una sua storia: nel senso che terminata la prima la seconda, ad esempio, non sarà incentrata sullo stesso tema ma avrà solo gli stessi attori in ruoli differenti, ovviamente. In questo modo si evitano i fastidiosissimi cliffhanger e si può tirare un sospiro di sollievo se la storia precedente non è piaciuta.
[Prima Stagione - The Murder House]
Ben Harmon (Dylan McDermott), Vivien (Connie Britton) e Violet (Taissa Farmiga) sono una famiglia che si trasferisce in una piccola città non dando adito alle voci di maledizioni che aleggiano sulla nuova dimora: fu infatti la scena del crimine di diversi omicidi. Il vicinato è pittoresco ed emergono subito personaggi come Constance (Jessica Lange) e la figlia, Tate (Evan Peters) e l'ambigua cameriera Moira (Frances Conroy). Ma gli Harmon scopriranno ben presto che c'è ben altro oltre il ridente e apparentemente normale quartiere. Strani eventi iniziano a far vacillare quello che sarebbe dovuto essere solo un modo per recuperare la fiducia persa.
La bellezza dello script è dovuta soprattutto alla riuscita di ben fatti colpi di scena e personaggi bizzarri, che non abbassano il livello qualitativo, anzi, lo innalzano. Appare subito evidente che quanto visto nella prima puntata è solo l'inizio di una storia in cui, attraverso parallelismi passati, si alterneranno strani eventi. Impressionante è l'utilizzo di Rubber Man, una raccapricciante entità con indosso una tuta masochista la cui vera identità, avvolta nel mistero, diventa il vero tormentone dell'intero arco narrativo.
Da segnalare poi il perfetto modo di riproporre, senza incappare in fastidiosi plot hole, di un intreccio movimentato tra passato e presente.
Se nella prima i riferimenti erano ad un contesto attinente maggiormente alla contemporaneità in questa seconda stagione la storia si avvia negli anni '60.
[Seconda Stagione - Asylum]
Briarcliff è un istituto psichiatrico gestito dalla gerarchia cattolica che ha al suo vertice il monsignor Timothy Howard (Joseph Fiennes) e al seguito Suor Jude (Jessica Lange). Spiccano l'impeccabile Dott. Arthur Arden (James Cromwell), lo zelante Dr. Oliver Thredson (Zachary Quinto) e la timida Suor Mary Eunice (Lily Rabe). La situazione degenera però quando una reporter Lana Winters (Sarah Paulson) inizia ad indagare sulle punizioni corporali usate come metodo di redenzione. Ma irreparabilmente compromessa per la sua omosessualità, finirà per diventare un'ospite della casa di cura dove la sua vita si intreccerà con quelle di Kit Walker (Evan Peters), accusato di essere un serial killer e Grace Bertrand (Lizzie Brocheré), un'assassina per necessità.
Sullo sfondo si alternano fantomatici rapimenti alieni e strani omicidi legati al nome Bloody Face.
Ora mi risulta difficile recensire questa seconda parte.
Sia perchè il mio è un giudizio annebbiato dall'hype lasciatomi intendere dai vari spot, sia perchè la storia in se è così mal riuscita che non è facile andare oltre "spaventosa".
Che non è un complimento, sia chiaro.
Ma procediamo con ordine.
La serie, come ho già detto prima, è un contenitore di omaggi al mondo dell'horror.
E funziona abbastanza bene, nella prima stagione, grazie ad una sceneggiatura ben strutturata.
C'è da dire che noi viviamo in un periodo che può ancora attingere all'immaginario collettivo creato da Lost, Twin Peaks e ancor prima da Dallas. Fautori della innovazione di un romanzo corale in cui si possono aggiungere personaggi attraverso una caratterizzazione non evolutiva bensì anacronistica.
Cosa voglio dire: attraverso l'utilizzo di un espediente narrativo come il flashback si può costruire un personaggio senza togliere tempo alla storia principale. In questo modo lo spettatore può immaginare la successiva azione e restare stregato e avvinto dal serial. Nozioni base per capire il meccanismo della maggiorparte dei prodotti televisivi odierni. Ma tutto questo ha un limite se non usato correttamente. Infatti uno dei rischi è quello di non dilazionare bene il tempo della storia con quello dei protagonisti, incorrendo così in una ridicola e patetica velocizzazione della maturazione dei personaggi o peggio: eliminandola rendendoli così piatti.
Al di là delle sottotrame insulse, dei momenti gratuiti di puro trash e di alcuni attori pessimi, il problema principale è quanto detto prima: un'assurda accelerazione narrativa che porta ad un ultimo giro di boa con un finale brutto e inutilmente shoccante.
Se nella prima stagione il perno principale era la ricostruzione del nucleo famigliare, con impressioni suggestive e battute riflessive, qui, sembra lo studio della malattia mentale a privilegiare. Ma se l'intento è quello di far luce sulle torture corporali, tra cui l'elettroshock e le frustate, e denunciare le brutalità e gli esperimenti che subirono molti pazienti, il prodotto non riesce perchè si riduce ad un romanzato e surreale quadretto d'altri tempi, lontano dal pubblico più attento e vicino a quello generalista.
A completare una regia che si perde troppo spesso nella sua ricerca estetica, tanto da risultare barocca e provocando il più delle volte, senza esagerare, nausea.
Da segnalare in positivo restano una egregia fotografia e un cast con gli ottimi Jessica Lange, Zachary Quinto e la non male Lily Rabe.
Infine c'è solo il rimpianto per un occasione mancata di poter dimostrare, con meno idiozie, una trama più ricercata e meno insulsa e, pur nutrendo qualche dubbio spero comunque in una terza stagione che abbia di apprezzabile non solo la sigla.
marcodemitri®
Come da copione, insomma.
Per chi non lo conoscesse, è l'ideatore di Nip\Tuck. Volete altro? Bene, ci sono Glee, la trasposizione cinematografica del romanzo Correndo con le forbici in Mano, The New Normal e infine American Horror Story.
Che è anche il prodotto di cui vorrei parlare.
American Horror Story (da ora in avanti AHS) è una serie televisica del 2011 - fino adesso arrivata alla seconda stagione - che non ha mai brillato per originalità e credo che questo sia un dato risaputo. La sua grande forza è stata quella di saper miscelare con astuzia e un palese ammiccamento al pubblico mainstream, storie già viste in precedenti pellicole thriller - horror; servendosi di una sceneggiatura accattivante, una regia originale e un bel cast.
Tutto questo riguarda solo la prima parte, che a conti fatti è la migliore.
Dunque perchè seguirla?
Oltre i già citati pregi, come la riproposizione di tematiche appartenenti al folklore e alla cultura dell'orrore e una delle più belle sigle mai realizzate, c'è da aggiungere che ogni stagione ha una sua storia: nel senso che terminata la prima la seconda, ad esempio, non sarà incentrata sullo stesso tema ma avrà solo gli stessi attori in ruoli differenti, ovviamente. In questo modo si evitano i fastidiosissimi cliffhanger e si può tirare un sospiro di sollievo se la storia precedente non è piaciuta.
[Prima Stagione - The Murder House]
Ben Harmon (Dylan McDermott), Vivien (Connie Britton) e Violet (Taissa Farmiga) sono una famiglia che si trasferisce in una piccola città non dando adito alle voci di maledizioni che aleggiano sulla nuova dimora: fu infatti la scena del crimine di diversi omicidi. Il vicinato è pittoresco ed emergono subito personaggi come Constance (Jessica Lange) e la figlia, Tate (Evan Peters) e l'ambigua cameriera Moira (Frances Conroy). Ma gli Harmon scopriranno ben presto che c'è ben altro oltre il ridente e apparentemente normale quartiere. Strani eventi iniziano a far vacillare quello che sarebbe dovuto essere solo un modo per recuperare la fiducia persa.
La bellezza dello script è dovuta soprattutto alla riuscita di ben fatti colpi di scena e personaggi bizzarri, che non abbassano il livello qualitativo, anzi, lo innalzano. Appare subito evidente che quanto visto nella prima puntata è solo l'inizio di una storia in cui, attraverso parallelismi passati, si alterneranno strani eventi. Impressionante è l'utilizzo di Rubber Man, una raccapricciante entità con indosso una tuta masochista la cui vera identità, avvolta nel mistero, diventa il vero tormentone dell'intero arco narrativo.
Da segnalare poi il perfetto modo di riproporre, senza incappare in fastidiosi plot hole, di un intreccio movimentato tra passato e presente.
Se nella prima i riferimenti erano ad un contesto attinente maggiormente alla contemporaneità in questa seconda stagione la storia si avvia negli anni '60.
[Seconda Stagione - Asylum]
Briarcliff è un istituto psichiatrico gestito dalla gerarchia cattolica che ha al suo vertice il monsignor Timothy Howard (Joseph Fiennes) e al seguito Suor Jude (Jessica Lange). Spiccano l'impeccabile Dott. Arthur Arden (James Cromwell), lo zelante Dr. Oliver Thredson (Zachary Quinto) e la timida Suor Mary Eunice (Lily Rabe). La situazione degenera però quando una reporter Lana Winters (Sarah Paulson) inizia ad indagare sulle punizioni corporali usate come metodo di redenzione. Ma irreparabilmente compromessa per la sua omosessualità, finirà per diventare un'ospite della casa di cura dove la sua vita si intreccerà con quelle di Kit Walker (Evan Peters), accusato di essere un serial killer e Grace Bertrand (Lizzie Brocheré), un'assassina per necessità.
Sullo sfondo si alternano fantomatici rapimenti alieni e strani omicidi legati al nome Bloody Face.
Ora mi risulta difficile recensire questa seconda parte.
Sia perchè il mio è un giudizio annebbiato dall'hype lasciatomi intendere dai vari spot, sia perchè la storia in se è così mal riuscita che non è facile andare oltre "spaventosa".
Che non è un complimento, sia chiaro.
Ma procediamo con ordine.
La serie, come ho già detto prima, è un contenitore di omaggi al mondo dell'horror.
E funziona abbastanza bene, nella prima stagione, grazie ad una sceneggiatura ben strutturata.
C'è da dire che noi viviamo in un periodo che può ancora attingere all'immaginario collettivo creato da Lost, Twin Peaks e ancor prima da Dallas. Fautori della innovazione di un romanzo corale in cui si possono aggiungere personaggi attraverso una caratterizzazione non evolutiva bensì anacronistica.
Cosa voglio dire: attraverso l'utilizzo di un espediente narrativo come il flashback si può costruire un personaggio senza togliere tempo alla storia principale. In questo modo lo spettatore può immaginare la successiva azione e restare stregato e avvinto dal serial. Nozioni base per capire il meccanismo della maggiorparte dei prodotti televisivi odierni. Ma tutto questo ha un limite se non usato correttamente. Infatti uno dei rischi è quello di non dilazionare bene il tempo della storia con quello dei protagonisti, incorrendo così in una ridicola e patetica velocizzazione della maturazione dei personaggi o peggio: eliminandola rendendoli così piatti.
Al di là delle sottotrame insulse, dei momenti gratuiti di puro trash e di alcuni attori pessimi, il problema principale è quanto detto prima: un'assurda accelerazione narrativa che porta ad un ultimo giro di boa con un finale brutto e inutilmente shoccante.
Se nella prima stagione il perno principale era la ricostruzione del nucleo famigliare, con impressioni suggestive e battute riflessive, qui, sembra lo studio della malattia mentale a privilegiare. Ma se l'intento è quello di far luce sulle torture corporali, tra cui l'elettroshock e le frustate, e denunciare le brutalità e gli esperimenti che subirono molti pazienti, il prodotto non riesce perchè si riduce ad un romanzato e surreale quadretto d'altri tempi, lontano dal pubblico più attento e vicino a quello generalista.
A completare una regia che si perde troppo spesso nella sua ricerca estetica, tanto da risultare barocca e provocando il più delle volte, senza esagerare, nausea.
Da segnalare in positivo restano una egregia fotografia e un cast con gli ottimi Jessica Lange, Zachary Quinto e la non male Lily Rabe.
Infine c'è solo il rimpianto per un occasione mancata di poter dimostrare, con meno idiozie, una trama più ricercata e meno insulsa e, pur nutrendo qualche dubbio spero comunque in una terza stagione che abbia di apprezzabile non solo la sigla.
marcodemitri®
venerdì 1 febbraio 2013
Silver Linings Playbook - Il Lato Positivo [Recensione]
Appena terminata la visione ho solo una domanda: come fa un film del genere, candidato ad 8 premi oscar, essere passato così in sordina nel Bel Paese?
Non che sia un capolavoro, sia chiaro, "ma nemmeno l'ultimo degli stronzi".
Tuttavia, questi, sono interrogativi che lasciano il tempo che trovano perchè il più delle volte la colpa è dei distributori poco ambiziosi e troppo timorosi di lanciare sul mercato un prodotto difficile per chi non vive una determinata realtà.
È un mercato complesso che risponde ad una logica commerciale pura e semplice: se il prodotto può rendere economicamente, bene, altrimenti si scelgono altre strade come l'home video o l'uscita in sala nei periodi meno caldi.
E questo è uno dei casi.
Pat (Bradley Cooper) è un uomo che ha trascorso otto mesi in un manicomio in seguito una condanna per aggressione: dovuta in parte ai suoi problemi con un bipolarismo non diagnosticato in tempo. Scontata la pena cercherà di riallacciare i rapporti con la moglie Nikki (Brea Bee), ormai quasi un vago ricordo. Ma i suoi piani avranno un risvolto positivo solo quando la sua vita si incrocerà con quella di Tiffany (Jennifer Lawrence), una giovane vedova depressa. Forti dei loro problemi di salute mentale, comporranno un quadretto di follia a deux, che lasceranno inaspettati i risvolti delle loro storie.
David O. Russell è un regista strano, sfuggente, particolarmente iroso. Sono infatti passate alla storia le sfuriate sui vari set, in particolare quella con George Clooney.
È un personaggio suscettibile come Christian Bale e astuto come Woody Allen, che sceglie argomenti da trattare molto vicini alla sua intelligenza affettiva.
Una prassi per quasi tutti i registi? Si e no.
Perchè opere come Silver Linings Playbook, tradotto simpaticamente in "Il Lato Positivo", e prima ancora The Fighter, sono diretti e sceneggiati con un attenzione minuziosa ai particolari: degna di chi le emozioni più che suscitarle, le vuole far vivere.
Una commedia amara con personaggi surreali, che scorre come un'estenuante ricerca di "normalità" quasi inesistente. Pat, interpretato da un artisticamente irriconoscibile Bradley Cooper è un uomo che non demorde: il bipolarismo lo estrania dal mondo e gli pone come unico obiettivo quello di ricostruire il suo matrimonio. Dopo essere uscito dalla casa di cura, la sua è una vita ricamata intorno al flebile ricordo del suo passato, interrotto bruscamente dal tradimento della moglie. E così, armato di ottimismo e con il soprannome "Excelsior", cercherà di mettere in sesto se stesso. Nikki, pur avendo solo una piccola parte nel film e ricordando in qualche modo l'alone di mistero intorno al colonello Kurtz, è quasi l'attrice principale; la sceneggiatura è infatti ritagliata sul suo personaggio e riesce perfettamente: creando il climax necessario. Immediatamente allontanato da un ordine restrittivo, Pat conoscerà Tiffany; Interpretata da una sensuale e straordinaria Jennifer Lawrence. Quest'ultima mette in scena una vedova depressa e nevrotica, che avrà come principale presupposto quello di far maturare il protagonista, portandolo ad una equilibrata gestione delle sue emozioni.
Sullo sfondo, un Robert De Niro come non si vedeva da tempo, duro, corrucciato e affascinante, è il padre affetto dal vizio del gioco mentre una fragile Jacki Weaver, la madre. A completare poi il fratello, con un sadico modo di dimostrare la sua sanità mentale.
Dunque un film con uno spaccato di una vita che troppo facilmente definiamo normale ma che non ci lascia più sorprendere per le cose positive che accadono.
Consigliato.
marcodemitri®
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