*
Ci sono diverse cose da conoscere su questo viaggio.
Molte le leggerete, altre ve le scrivo qui:
Le foto sono state realizzate in tutto o in parte da un amico, un compagno di viaggio, che ringrazio. Il mio telefono ha sofferto di gravi ammaccature sul vetro della fotocamera e non ha retto il ritmo, l'emozione, l'enfasi.
Questo è un reportage, come in molti avranno capito, ironico ma salentinamente vero.
Ho solo trattato l'argomento immergendomi nei panni di un salentino medio.
"La uei 'na dregHer fresca?!"
Riconobbi la voce di Martina.
Spalancai gli occhi impaurito ma mi risultò difficile tenerli aperti troppo a lungo; il
sole era talmente forte da violentarmeli.
E così allungai una mano per proteggermi dai suoi raggi.
Avvolto in un alone solare riconobbi la sagoma di Martina, il suo bikini a pois.
"Sì… una birra.. si…"
"Oh ma sta dormi?"
"Sì… no…"
Gli occhiali da sole a specchio riflettevano la
mia faccia intontita con la bocca impastata di saliva e il viso bollente.
Martina, con la femminilità che la
contraddistingueva, mi posò la birra fredda sulla pelle.
Balzai dallo schienale.
"Ma si scema?!"
"Cussì te mpari cu 'mpanni!"
Ebbi la consapevolezza di aver posato i piedi sulla sabbia, bollente e granulosa.
Sprofondarono.
L'odore di salsedine.
Massì.
Riconobbi Torre Chianca.
"Martina stavo facendo un bellissimo
sogno... ero in America!"
"E tie cu 'sta america a ruttu!"
Abituato alla sua acidità feci finta di nulla e continuai a raccontare.
"C'erano Manhattan, le zucche di Halloween,
gli Hot Dog. La gente gentile… Mi ero persino ubriacato ad un party stile American Pie!"
"… American Pie gne gne gne…", mi fece il verso divertita.
"E poi… ti avevo fatto un regalino da
Tiffany!"
"See! Allora era proprio un sogno!"
Le feci cenno col capo, triste, mentre fissavo
l'acqua cristallina.
"Ane meh! Pigghiate 'sta birra!"
Ma vidi due bottiglie di tennent's
incastrate nella sabbia. Vuote.
"Marti e quelle?"
Il piercing si rivelò lucente quando lei si
voltò per rispondermi.
"Me l'aggiu bevute iou no? Sta tenia na
site!"
"Ah.."
Quegli occhi grandi e neri e profondie quella pelle olivastra, praticamente olio extravergine l'estate, con quel tatuaggio poi "paccia per lu Salentu", contraddistinguevano Martina da tante altre.
Benedica, pensai mentre la birra scendeva giù, lungo la gola, donandomi sollievo.
Si sa che le donne salentine sono le migliori
del mondo.
“Attentu nu sia te nfuechi!”
E anche un po' rustiche.
Sentivo il richiamo del mare dallo scrosciare delle increspature in piccoli ricci di schiuma.
Ci andai incontro per bagnarmi i piedi.
"Poco poco di pasta al forno la vuoi?"
Il vento soffiava una leggera brezza tanto da
non farti sentire il caldo pungente del solleone.
Gli ombrelloni inchiodati sulla spiaggia, con
rudimentali ancore, segnavano i confini delle famiglie riunitesi a festa sulla
spiaggia.
La sabbia finissima dai granuli sottili.
Le facce compresse in espressioni sofferenti e grondanti sudore.
"Ehi vieni qui che ti presento mia sorella!'
"Ma me l'hai presentata prima!"
"Nono, è un'altra. In famiglia ci siamo dati da fare."
"Ma quante nde tieni?"
Risate grottesche riecheggianti versi animaleschi.
E poi i sorrisi e la felicità per quei momenti, le
persone accorse coese in gruppi di urlanti infanti e anziane dalle
richieste "ma hai mangiato?"
Poi mi si avvicinò Martina, con una vaschetta
di anguria.
"Tieni, prendi un pezzo nah!"
L'odore era buono ma nulla poteva
fare con quello della pasta al forno.
"Ehi, non guardare lì, dobbiamo mangiare leggero che
è estate. Altrimenti ti cresce la panza e a me piace la tartaruga. Come quella di ChristianNNNA di Uomini&Donne."
"Ma ma ma… voglio un pezzo di.."
"None… tieni!"
E mi passò con una forchettina di plastica un
cubo di anguria.
Che cadde sulla mia mano.
"'Ttentu…"
'Ttentu.
E mi svegliai perché qualcosa mi aveva bagnato
la mano.
Riconobbi la mia bava.
Riconobbi quel senso di stordimento quando si dorme per poco tempo, scomodi e si intuisce di aver russato.
Dov'ero? Mi chiesi.
Riconobbi le hostess.
Ero seduto su un morbido schienale.
Il rumore vibrante.
Ma certo! ero sul volo per San Francisco.
Della spiaggia solo un sogno offuscato.
Di Martina il ricordo delle ultime parole.
"Marco... ti devo dire una cosa"
Una telefonata interrotta.
La seconda parte di un viaggio.
COME SONO SOPRAVVISSUTO NEGLI STATI UNITI
SENZA CAFFÈ IN GHIACCIO E GUENDALINA
SAN FRANCISCO
[Seconda Parte]
Quando le TV LCD non erano ancora in offerta alLA Carrefour, prima ancora di fare i porci su whatsapp, i televisori con tubo catodico occupava uno spazio importante nel salotto.
Si ergevano voluminosi e talmente ingombrati da impedire alla mamma di posizionare le bomboniere dei millemila parenti sul centrino in merletto regalato al matrimonio dallo zio Carmelo.
Il suo esercito di animaletti e tazzine e cose lì in porcellana.
E ogni giovedì sera, dopo i compiti, noi ragazzi dello zoo delle superiori dai muri imbrattate di graffiti e false promesse, sedevamo sul divano e guardavamo The OC; per commentarlo il giorno dopo, ovviamente.
Scazzottate, abiti firmati, bellocci trentenni spacciati per quindicenni, milf.
Insomma: il sogno americano entrava in casa, sfavillante.
E anche ingombrante e prepotente come quel televisore a tubo catodico che non lasciava spazio al centrino in merletto regalato dallo zio Carmelo.
Eravamo noi i ragazzi europei indelebilmente marchiati con stelle e strisce.
In ansia.
Ero tremendamente in ansia di vedere l'Oceano Pacifico e San Francisco.
La California, la terra del sole e del mare non poi così diversa dal mio Salento, si estendeva lunga e compatta.
Misi le cuffiette e mi sparai la canzone giusta al momento giusto.
"Californiaaaa… Californiaaaaa!"
Se c'è una cosa che resterà impressa oltre l'"anuwaluwei" di Dawson's Creek è questa sigla.
L'aereo virò dolcemente sul lato sinistro, si
abbassò di quota e dopo aver librato per diversi minuti, si indirizzò verso
l'aeroporto, scendendo con atterraggio perfetto.
Ma nessuno batté le mani.
Nessuno.
Che maleducati, pensai.
Questi americani sono
troppo seri.
L'eroporto di San Francisco si presentò
totalmente diverso da quello di New York. C'erano più sorrisi e meno sguardi
sospetti. Più cappelli da Cowboy e meno da poliziotti.
Sotto i piedi, poi,
della soffice moquette.
"Allora Marco sei in California. Calma.
Californiaaaaa…
Basta. Organizzati.
Prima cosa…
sei una cretina?… no, quello no.
Accendi il cellulare e scrivi uno status?
Ecco, sì."
Ma feci il primo errore.
Perché appena tolsi la modalità "uso in aereo" il telefono riprese a squillare.
E vibrò forte, fortissimo. Praticamente un
martello pneumatico.
Risposi.
Era mia madre.
"Marcu ma ce fine hai fattu?"
"Mamma ero in…"
"Ca quai été mezzonotte, a du stai?"
"Mamma ero in…"
"Nu squariare mannaggia, nu squariare… A
st'ura stai sempre a casa!"
"Mamma ma che cavolo dici.. c'è il
fuso…"
"Mo che lo dico a tuo padre vedi che
dice!"
Chiusi il telefono.
Poi mi giunse un messaggio.
"Nonna ha
chiamato alle ore: 17\17.40\18\28490t40t40tr040949965"
Nonna ha bucato lo spazio - tempo.
Riuscì a phonare gli orologi e ad asciugarli e così ripresi il mio tragitto.
Il sole infiltrava i suoi raggi attraverso le grandi vetrate dell'aeroporto, trafiggendo la struttura in diversi punti.
Camminai per diverso tempo con il trolley
finché non raggiunsi l'ingresso e lì, a quel punto, chiesi come raggiungere il
centro della città: l'albergo, più precisamente.
Devo dire che iniziai nell'immediato a notare
una differenza abissale con NY; le persone erano sì gentili, ma non di quel
gentile al limite dello stucchevole.
Ti rispondevano per dovere, abbozzando un
sorriso, e poi continuavano il loro lavoro.
Qualunque esso fosse.
Raggiunsi l'uscita e potei finalmente respirare l'aria della California, che sì non era poi così diversa da quella del mio Salento ma si avvertiva comunque l'assenza di basilico e rosmarino. E di creme solari.
In ogni caso arrivai ad una fermata con dei
taxi speciali. Un tizio orientale, basso e con gli occhi a mandorla, di quelli
che a Lecce ti vendono le pistole giocattolo, mi si rivolse, chiedendomi
dettagli sul percorso.
Arrotondava, però, troppo la *r e io stentavo a
capirlo.
Alla fine mi intimò, spazientito di attendere
che il numero 56 arrivasse.
E rimasi lì ad aspettare, insieme ad altre
persone, che per connotati ed espressioni giudicai far parte di almeno cinque
nazionalità differenti.
Il 56 arrivò, imperioso, enorme, con almeno una
decina di posti.
Il tizio orientale lo raggiunse quasi sudato,
perché si spostava rapidamente da una fermata e l'altra.
Urlò talmente forte che sembrava da un momento
all'altro pronto ad estrarre una sciabola e l'autista sconsolato scese, era tipo
di origine est europa, grosso, pelato, con tratti cirillici. Il cinese lo seguì
arrabbiato come un piccolo chiwawa abbaia insignificante a qualsiasi cosa si
muova.
Prese le valigie, le infilò nel taxi e
farfugliò qualcosa.
Cioè: salite.
E partì, spingendoci ad alta velocità su una
tangenziale che, per prospettiva, sembrava andare incontro il sole.
Una palla gialla ma dal debole calore di un 6
novembre.
La città si stagliava sullo sfondo squadrata dei grattacieli concentrati in una unica zona, la downtown. Il taxi si inabissava sulla strada sfiorando le campagne, nelle grandi strade americane, raggiungendo in fretta e furia il centro abitato.
La prima cosa che noti appena giungi in città sono le strade.
Un continuo
sali e scendi, salite e discese.
È come se usassimo il sottopassaggio della
circonvallazione di Lecce per spostarci.
La strada va giù, la strada va su.
Tiro dritto e scendo, urrà finchè non ti viene da vomitare.
"Maestroh sta giostra quandu spiccia?!"
E poi c'è nel mezzo un tram turistico, di cui alcuni vagoni sono stati regalati della città di Milano.
Esso annuncia il suo arrivo negli incroci centrali
con un tintinnio del campanello.
Fastidioso, come la sigla di uomini e donne che
Martina mi ha impostato per i suoi messaggi.
Parli del diavolo…
Martina h.:17 e 24
"Allora apposto? Si rriatu puru sta fiata?
Però adesso possiamo parlare poco. io me ne vado a dormire che è tardi e domani
mattina esco per l'estetista. Vado dalla Rosi che i peli delle gambe me li fa
meglio. invece la Giovi mi lascia sempre metà pili. PD."
Fortunatamente l'autista strattonò troppo il
volante facendo roteare violentemente l'auto per la svolta e mi deconcentrò
dall'orrore dell'ultimo messaggio. A volte Marti mi faceva rabbrividire ma
effettivamente aveva ragione: due tipi come noi, così di tendenza, non potevano
di certo cedere agli inestetismi antiestetici.
E mi vennero in mente le lampade al solatè.
Dovevo trovare un modo per farle, qui, in
California.
La terra del silicone.
"sì, sn arrivato. poi ci sentiamo meglio.
per adesso mi manchi tanto e devo farmi pure una lampada. notte."
Il cinese seduto al posto del passeggero, ogni
tanto, lanciava un occhiata all'autista. Non si fidava molto. E infatti lo
rimproverava quando sbagliava strada.
Avevo paura, lo ammetto.
Dopo circa un'ora di sguardi da film di Kurosawa, arrivai all'albergo posizionato nel quartiere Coreano.
Appena entrai, poi, una signora mi si parò
davanti offrendomi un calice di vino e gridando, orgogliosa, benvenuto a San
Francisco: the land of the Vino.
"No, signora, it's called MIERU."
Era la prima volta che entravo in un albergo americano; ma non era poi così diverso dall'Italia. Un tizio scuro di carnagione che per comodità chiameremo Pantaleo, mi accolse con un caloroso benvenuto.
Mi indicò la stanza, dandomi le chiavi con il numero siglato sopra, e compilò il solito modulo coi miei dati.
Lo ringraziai e salii, giusto il tempo per spogliarmi e farmi una doccia.
Scesi dopo un po' e chiesi qualche suggerimento per andare in piazza, quella centrale, e lui quasi bramoso che gli chiedessi questo, prese un blocchetto di cartine dal cassetto, lo sbattè sulla sua scrivania e ne strappò un foglio. Come fosse un gesto meccanico, sicuro: una sua missione, strappare cartine.
E indicò con dei cerchi le zone di maggiore interesse. Le vie. I bus da prendere.
Io, con un po' di imbarazzo lo ringraziai ancora una volta e procedetti per la prima fermata del bus.
Che arrivò dopo qualche minuto di ritardo.
San Francisco non è poi così diversa da Lecce.
I mezzi pubblici ritardano, ne arrivano due dello stesso numero insieme. Si divincolano dalle auto, forse troppe.
Me lo diceva un signore sul tram, un signore con l'orecchino e il sorriso sardonico.
"Qui è nato Uber perché i ricchi non vogliono aspettare i mezzi pubblici.
[…]
Sono persino disposti a pagare cinquanta dollari per fare pochi metri."
|
Subito scaricata l'app Uber |
Cinquanta dollari, uao.
A Lecce per non pagare un euro e quaranta di bus spendiamo dieci euro di benzina, mi rimbombò questo pensiero.
"Marti so che è tardi per te ma ti dico che sono nella piazza di San Francisco. Ci sono tante cose belle. Certo è più piccola di Piazza Sant'oronzo."
Effettivamente Union Square non è poi così grande ed è quasi una delusione dopo aver visto NY.
E la piazza di Galatina.
Faccio giusto un giro per andare a mangiare da qualche parte.
Trovo un ristorante, c'è gente dentro e l'atmosfera sembra abbastanza calda.
Entro.
Mi accoglie un tizio baffuto, in divisa bianca. Mi fa accomodare e mi chiede da dove vengo.
"Italy? Allora devi provare il nostro piatto italiano."
"Ho paura", gli rispondo.
"Tranquillo, è cotto bene."
Mi porta una composizione con carne e spaghetti insieme.
Insieme, sì.
Da una parte la pasta e dall'altra la carne, grondante sugo, che quasi si mescola con gli spaghetti in aglio e non so cos'altro.
Provo ad assaggiare: la carne è ottima ma gli spaghetti hanno il sapore del forno. Immagino siano stati cotti fino a scuocerli e poi riscaldanti nel forno.
Ripassa il cameriere e io gli dico "mmm buooooniiii".
Lo faccio contento.
Poi pago e vado via.
"Marco... ti devo dire una cosa."
Erano nove le ore di fuso orario e alle 3AM ora di San Francisco decisi di chiamarla perché dovevo risolvere la questione.
"Martina… cosa è successo? Cosa dovevi
dirmi?"
"Naaaa mo mi fai finire i minuti!"
"Scusa invece di essere contenta che ti chiamo pensi ai minuti??"
"Cacertu! Che io non c'ho mica tutti i soldi che c'hai tu!"
"Quali soldi? Tra poco finisco come i barboni agli angoli delle strade…"
"Che schifo!"
"Dai… cosa dovevi dirmi??"
"Niente…"
"Come niente? Mi hai fatto fare il viaggio in aereo con questo pensiero!"
"Ce si scemu! Ti preoccupi troppo."
"Scusa, tu mi devi dire una cosa… Dimmela no? Che problema c'è?"
"Prima cosa sei una cretina!"
"Vabè basta…"
"Sine… è una fesseria…"
"E dimmela no?"
"è che… la Maristella mi ha detto
che in California ci sono tante femmine zoccole. Non voglio che tu mi tradisca.
Se dici ca suntu gelosa te cciu."
Mi feci una sonora risata e le risposi.
"Ma va! Ti ho comprato un pensierino."
"Davvero?? Allora iti cu turni
subito."
Martina aveva il potere di trasformare qualsiasi conversazione romantica in materialismo puro. D'altronde non potevo biasimarla: veniamo dal Salento, la terra dove il romanticismo si fa sole, mare e vento.
Si fa materia.
Il bus su cui viaggiavo per tornare in albergo mi annunciò l'arrivo alla fermata, non c'era bisogno di premere alcun tasto.
Entrai e salutai Pantaleo che lasciò tutto quello che stava facendo per ricambiare.
Salii in camera e mi stesi sul letto, mi addormentai pensando a Modugno.
E sorrisi.
La mattina giunse con il suo carico di energia.
Preparai quello c'era da preparare e scesi, dirigendomi da Pantaleo per avere delucidazioni sul tragitto per Alcatraz.
Lui, di nuovo, prese un blocchetto di cartine dal cassetto, lo sbattè sulla sua scrivania e ne strappò un foglio. Come fosse un gesto meccanico, sicuro: una sua missione, strappare cartine.
Grazie, gli dissi, un grazie tenue.
Forse è un robot, pensai.
San Francisco si affaccia sul mare, secondo
quanto leggo, era la città preferita degli avventurieri. Qui, ci costruirono
dei moli dove attraccavano le navi di ritorno e in partenza per le indie.
Ma nella storia è rimasto un molo indelebile.
Uno in particolare.
Pier 33.
Quello per Alcatraz.
Avevo prenotato prima della partenza i biglietti per la prigione più famosa della storia. Salii a bordo di un battello dopo aver fatto la solita fila, un quarto d'ora e poi eccomi qui:
Ad Alcatraz c'era la nebbia fitta, che la
circondava. Quasi fosse il film con Clint Eastwood. Ad essere sincero tutto
questo mi metteva ansia e stupore. Gli americani sembra lo facciano a posta a
creare il giusto pathos per ogni cosa. E in questo caso: una prigione su un
isola nell'Oceano Pacifico avvolta dalle nebbie.
L'isola seguiva l'andatura naturale dei promontori e delle rocce.
Salivi e scendevi, come se San Francisco non ti avesse abbandonato. Vidi di
tutto e mi feci la classica foto da simpaticone in una cella.
Mamma mi hanno catturato, mandai un whatsup.
Mi rispose:
- C'HA FATTU LU FIJU MIUU??
Anche in questo caso: decisi di non rispondere.
E me ne vantai, con una foto profilo da coatto.
Dal battello di ritorno, scattai diverse foto all'isola.
Pensando a quello che più mi aveva colpito.
La cella di chi riuscì ad evadere.
In tre costruirono tre teste finte e le posizionarono sui
cuscini. Intanto avevano scavato un buco nella parete. La notte attesero il
silenzio e le tenebre per dare vita al loro piano di fuga.
Secondo la leggenda i tre morirono lanciandosi
nell'acqua fredda ma per altri riuscirono ad approdare nel sud america e tanti
saluti al sistema correttivo americano.
Approdarono nel Sud America e tanti saluti.
Mi ricordai così di quando alle superiori
fuggivo da scuola per andare a fare colazione col pasticciotto nel bar vicino.
Anche nel mio caso si trattava di raggiungere la libertà dell'ora di metà
mattinata.
Li capii.
Prima di dire addio a San Francisco, volli fermarmi in altre tappe.
Un quartiere di cinesi che vendono pesce,
erbe particolari e tanti sguardi storti.
A molti chiesi cosa fosse questo azzurrino:
O si giravano dall'altra parte o mi parlavano
in cinese.
- Lombard Street;
La strada più ripida del mondo: PD.
E infine mi tolsi qualche sfizio.
Anelli di cipolla sul lungo mare.
Sembrava di stare a San Foca.
Colazione Americana.
E dissi addio anche alla seconda parte del viaggio.
11 novembre.
Mi congedai con Pantaleo, che mi strappò un altro foglio della cartina, poi rifiutai l'ennesimo bicchiere di Mieru delle 7 e 30 del mattino e mi diressi
alla Hertz.
Per prendere l'auto.
Si apriva la terza parte del viaggio.
Quello più assurdo.
A cominciare dai pedali e dalle marce.
Quello più divertente
Che riuscì a frenare per cinque volte
inchiodando e sfiorando incidenti.
E a procedere in prima.
Per quarantacinque
minuti.
Quello più americano.
"Martina io prendo la macchina e parto per
LA."
"Per
LA, DOVE??"
Indossai gli occhiali da sole a specchio e mi
preparai per Los Angeles.
"Compra del phard" mi disse "nu sia te pijanu pe culu ca si troppu biancu".
Ma.
Prima di partire, mi fermai a fissare, l'11 novembre, mi fermai a fissare il molo.
E scrissi:
"A malincuore lascio San Francisco. Una città colorata, una città
straordinaria incorniciata in un paesaggio di mare con le colline.
Talvolta una coltre di nebbia la ricopre e rende il tutto ancora
più affascinante mentre le strade salgono e scendono e sembra di trovarsi in un
luna park.
Una delle città di Sergio Leone ha solo, per me, un difetto:
trovarsi dopo new york perchè è difficile dimenticarsi della grande mela.
Ora si parte per il Big Sur e poi Los Angeles in un road trip
sulla costa dell'oceano pacifico.
Un "on the road" con il GPS."
[Fine seconda parte]
marcodemitri®