C’è
molta più arte in un piatto di pasta fatta in casa che in un quadro di Dalì,
pensai immaginando quel piatto prendere vita come in un musical: orecchiette
giallo ocra vestite del grondante sugo rosso piccante e disposte in un
conturbante ballo all’ombra di foglioline di verde basilico e, a rendere
l’atmosfera più soft, una spolverata di bianco formaggio ricotta.
“Te
l’ha mai dittu nisciunu ca nu se fissa?”
Alzai
il sopracciglio destro, strabuzzai gli occhi e m’irrigidii.
“A
tie sta dicu!”
Mi
guardai intorno; poi fissai nuovamente il piatto avvicinando il viso e mi
chiesi cosa stesse accadendo.
“L’ha
capita allora ca sta te parlu?”
“C
– come è possibile?!”
“Suntu
quiddhru ca se dice lu piattu te parla pe quantu è bonu!”
“…”
“Dai
scherzava!”
“C–cosa
vuoi da me?”
“Cu
fazzu do chiacchiere: lu tiempu prima cu me mangi!”
“Non
ho più fame, guarda.”
“Nu
b’essere schizzinosu! Te ulia cu te dicu: pensa prima cu mangi!”
“Cioè?”
“Dha
santa cristiana de nonnata m’ha creatu cu dh’amore ca nu se acchia chiu percè
siti ormai attrezzati cu surgelati, mechidonalds, sushi. Mai pe iabbu!”
“Uao,
un piatto fondamentalista che parla dei valori di una volta mi mancava.”
“C’è
si difficile. Pensa ca ste orecchiette enenu de na ricetta semplice: acqua e
farina…”
“Ascolta,
non conosco bene il dialetto…”
“Madò
sti giovani de osce! Vabbè, cercherò di parlare nu picchi in italiano. Sarò
tipo Siri: ti guiderò in tre difficili situazioni della tua terra.”
Alchè
continuò a vibrare nell’aria solo quella voce mentre con mio sommo stupore il
bianco iniziò ad inghiottire la scena.
“Immagina.”
“Puoi?”
Risposi, circondato dal lucido candore del nulla.
“APRI
LA CAPU, FESSA!”
“Ehi
ma così mi ferisci!”
Mi
ritrovai in un cielo azzurro; il sole era un astro bollente su un'immensa
distesa di oceano verde e all’orizzonte si stagliava un campo di pale eoliche.
Ero
stato teletrasportato: mi sentivo leggero, trasparente e pallido.
La
strada sconnessa a tratti serpeggiava le campagne, le cicale frinivano e io
vivevo un’esperienza extracorporea.
“Con
la scusa del risparmio energetico stanno distruggendo la nostra terra. Lo
sapevi che qui non crescerà più nulla?“
La
situazione che si presentò ai miei occhi era impressionante; eliche che
ruotavano imponenti con il tempo dettato dalle forti raffiche di vento.
“Dove
siamo?”
“Sei
in una delle tante campagne del Salento. Porzioni di terreno tolte ad
agricoltori per costruire distese di fotovoltaico. Senti questo rumore?”
“Sì.”
“Sono
le enormi pale eoliche: spaventano gli uccelli.”
Più
in là l’indicazione turistica segnava “Masseria Papa”; nell’aria l’odore acre
del gregge, per molti ma non per me, fastidioso.
“Basta
così.” Irruppe.
Fui
accecato da una serie di intensi bagliori ed ebbi la sensazione di cadere; le
mie urla si dileguarono nell’estensione del vuoto. Poi qualcosa attutì
l’atterraggio e aspettai un po’ prima che il frastuono nelle orecchie andasse
via; ma non appena riaprii gli occhi capii quale sarebbe stato il mio nuovo
scenario.
“Il
traffico”. Esordì con tono cupo.
Non
ci voleva; ero nella strada principale della città e tra fischi, urla e smog,
la geometria andava a farsi benedire: il caos regnava sovrano.
“Conosco
molto bene.” Risposi con rammarico.
“La
gente non usa i mezzi pubblici, le biciclette, non va a piedi. Trascorre più
tempo in quel maledetto abitacolo che con la famiglia ed ha la strana
convinzione di poter far prima spostandosi in auto. Ti sembra normale
parcheggiare in quel modo, tra l’altro?”
Un uomo che faceva capolino dal finestrino aspirò l'ultimo
boccone di fumo, buttò via la sigaretta che emise un piccolo bagliore prima di
spegnersi, e suonò il clacson convulsamente.
Un bambino, invece, lanciò via dei pezzetti di carta come
fossero coriandoli, che si dileguarono fugaci nel cielo gonfio di nubi.
“Guarda all’incrocio cosa accade.” Mi indirizzò
lo sguardo, col pensiero.
C’era un’auto dietro i vigili urbani e su una corsia
preferenziale; appena scattato il verde, l’uomo iniziò a colpire il volante
come fosse un sacco da pugile. Gli uomini in divisa, visibilmente compiaciuti,
spensero il motore e si avvicinarono, chiedendo i documenti.
“COME VI PERMETTETE?” Si ribellò.
I vigili, così, fecero notare che era in torto ma sembravano non
riuscire a calmare l’ira dell’uomo. Il clou della scena, leggete bene perché è
divertente, fu raggiunto con l’arrivo della polizia. Dopo essersi fatto quasi
investire dalla volante urlò: “Dovete fare qualcosa perché vogliono farmi la
multa”.
Insomma, alla fine il signore si beccò anche l’oltraggio a
pubblico ufficiale e io, con ancora un sorriso amaro stampato sul volto,
iniziai a camminare senza volerlo.
“Che diavolo?!”
Le mie gambe si muovevano da sole facendomi attraversare quello
che trovavo sul cammino.
“Adesso
viene il bello.”
Ero
spinto da una forza che mi guidava come un giocattolo e che mi portò davanti un
bar.
“Entra.”
Tuonò.
Le
nuvole si fecero più inquietanti, cadde qualche goccia, che scivolò sulle
lamiere delle auto, rigandole.
Non
avevo scelta e così, entrai.
Non
diedi molta importanza alla strana sensazione che mi colse non appena raggiunsi
il locale.
La
forte fragranza al caffè lo rendeva accogliente e mi fece pensare che anche ad
occhi chiusi avrei capito si trattasse di un bar; ma ancora non sapevo che
avevo un posto in prima fila per una ultima grande sorpresa.
“Che
ci faccio qui? Non mi va un caffè!”
Dissi
senza ottenere alcuna risposta.
Rifeci
la domanda: niente.
Ero
uno spettro in un folto gruppo di persone che attendevano il turno.
Cercai
di alzarmi sulle punte dei piedi per scorgere qualche indizio sul perché fossi
lì, ma ancora una volta: nulla.
Cavolo - pensai - posso attraversare la materia in qualità di
fantasma! Così, dopo essermi concentrato lo feci. Il problema fu la
sorpresa che mi si presentò: qualcosa che nemmeno nelle fantasie più
egocentriche avrei mai potuto immaginare.
Fermi
un momento e riavvolgo il nastro per chiarire un punto. Nel momento in cui sono
stato catapultato in questa esperienza, a quanto pare, ho perso i miei ricordi.
Non ho più avuto consapevolezza di me stesso, potendo solo osservare e
riflettere.
Vi
scrivo questo perché ciò che mi si parò davanti non era altro che me stesso.
Quello
reale, insomma.
“Surreale”
fu la prima parola che mi venne in mente e la sussurrai.
Incuriosito,
mi avvicinai. Dopo aver gesticolato come un forsennato e scoperto un paio di
punti neri sul naso, capii che lui o me, non so come dire, non avvertiva
minimamente la mia, la sua o la nostra presenza.
Ero
stato abbandonato a me stesso nel vero senso del termine.
“Buongiorno,
prego!” Disse al cliente che venne in cassa.
“Un
caffè.” Rispose con voce afona.
“80
centesimi, grazie!”
Una
scenetta, questa, che si ripetette per innumerevoli volte.
La
gente entrava senza salutare, ringraziare o congedarsi con garbo; chiedeva con
tono dittatoriale. Era mortificante perché nessuno avrebbe mai pensato quanto
fosse brutto lavorare in un’atmosfera priva di emozioni.
La
maleducazione, come un virus, si diffondeva e chi si salvava, accumulava odio;
come un cane che si mordeva la coda.
Poi
una luce.
Ancora
un’altra.
Un flash.
Una
terra devastata, rami secchi e scheletri. Un caldo insopportabile, talmente
forte da far evaporare qualsiasi liquido. Non avevo consapevolezza del mio
corpo dato il mio essere in quel momento evanescente ma percepì il calore;
avvertì la sua presenza da un leggero bruciore.
Le
case erano diroccate, in serie, crollate in angoli.
Persiane
sbattute dal vento.
Increspature
di vernice.
Ed
un leggero sentore di: morte.
Un’insegna
stradale con sfondo blu e arrugginita negli angoli, cadde sulla terra arida.
Recava
l’iscrizione “Salento”.
In
piccolo, in basso su quel cartello:
“Terra d’Otranto nata nel 2050”.
“Terra d’Otranto nata nel 2050”.
Mi
ritrassi come punto da un insetto, un dolore tremendo alla base del collo,
conati di vomito.
Cecità.
Pensai di svenire.
“Beddhu”
Poi un’altra volta, ancora e ancora; in sequenza.
“Beddhu..
Beddhu.. Beddhu..”
A ben capire ero rimasto a fissare per un bel po’ l’immagine del piatto come un bambino estasiato
di fronte a dei fuochi d’artificio. Ma quel momento era ormai terminato perché
piombò il fatidico e preoccupato interrogativo della nonna:
“Beddhu
miu nu te piace? Percè nu mangi?”
Ed
è così che ebbe nuovamente luogo una ricorrenza celeberrima che accade una
volta la settimana, per ogni settimana del mese, per ogni mese dell’anno, per
ogni anno di un lustro e via dicendo e che fa parte della tradizione culinaria
di intere generazioni salentine:
IL
PRANZO DELLA DOMENICA.
Un pranzo che lasciava,
per la prima volta, una grande preoccupazione.
E un disagio.
Per un futuro oscuro.
marcodemitri®
marcodemitri®
debbo dire di nonessere un amante delle storie surreali, amo il fantasy la fantascienza, ma questo racconto mi è piaciuto assai. molto bella l'idea del piatto che parla e che ti fa trasmigramigrare in un piano "alternativo" per farti vedere il mondo da una prospettiva diversa mi è piaciuto un sacco. :)
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