Prologo.
C’era una volta un pittore che, oltre a dipingere quadrati spacciandole per
persone, disse "I grandi artisti non copiano, rubano".
Ed infatti Steve Jobs si fregò la frase.
Ed i quadrati.
Diventò un genio.
Ci guadagnò.
E poi morì.
Ed infatti Steve Jobs si fregò la frase.
Ed i quadrati.
Diventò un genio.
Ci guadagnò.
E poi morì.
Premessa.
Sono un grande fan di Tarantino.
Di quelli che
amano Jackie Brown e considerano Le Iene il suo film più riuscito senza nulla
togliere a Pulp Fiction.
Di quelli cui
piace Death Proof perchè autoreferenziale e narcisista e guardano con un occhio
critico il volume uno di Kill Bill.
Di quelli che
hanno nel cuore Inglorious Basterds ma non dimenticano il dito mozzato di Tim
Roth.
Perché il cinema
di Tarantino o lo si ama o lo si odia. E io gli voglio bene.
Ho trascorso
parte della mia adolescenza a studiare l’intreccio di Pulp Fiction, ad
inscenare il triello e citare quasi ossessivamente la famosa “Ezechiele 25:17”
ma se c’è uno dei capisaldi della sua produzione che più di ogni altra cosa amo
è quel linguaggio scurrile, veloce, dissacrante e a volte surreale: insomma di
quei discorsi che seriamente c’entrano ben poco con il tipo di storia che mette
su. Passerei ore a riascoltare lo sproloquio sulle mance, sul sistema metrico
decimale, sui massaggi ai piedi e il De Niro allucinato perso nei grandi
magazzini.
Tarantino è “Un’enciclopedia vivente” che, come un bambino eccitato di fronte un giocattolo nuovo, smonta e rimonta per trovare ancora ispirazione; un’abilità paragonabile alla tecnica del rampino di D’Annunzio: prende quello che gli piace, lo incastra bene e ci crea qualcosa di unico.
Tarantino è “Un’enciclopedia vivente” che, come un bambino eccitato di fronte un giocattolo nuovo, smonta e rimonta per trovare ancora ispirazione; un’abilità paragonabile alla tecnica del rampino di D’Annunzio: prende quello che gli piace, lo incastra bene e ci crea qualcosa di unico.
Per poi dire “faccio
film che piacciono a me”.
Che piacciono a lui, appunto.
E a volte piacciono anche al pubblico.
Che piacciono a lui, appunto.
E a volte piacciono anche al pubblico.
Capitolo 2: Trama.
È la storia di uno schiavo nero, Django (Jamie Fox), liberato da un buffo ma onesto cacciatore di taglie, King Schulz (Cristoph Waltz). Uniti da un iniziale legame di favore, i due si alleeranno per salvare la moglie di Django, Brunhilda (Kerry Washington) al servizio di Calvin Candie (Leonardo Di Caprio), uno spietato schiavista proprietario di una piantagione a Candyland.
Capitolo 3: Cosa funziona.
Su una cosa
Spike Lee ha ragione: Tarantino è un bianco che vuole fare il nero. E ci
riesce. Perché Django è un film sui neri che racconta meglio di Fà La Cosa
Giusta la segregazione razziale. Con irriverenza e quasi fastidiosa ripetizione
della parola “negro” si prende gioco dei luoghi comuni razzisti per
fronteggiare l’ignoranza della supremazia dei bianchi, in un viaggio attraverso
l’America bifolca e arida del sud.
L’impresa c’è
riuscita perché il film è ben fatto e diverte; chi apprezza Tarantino, avrà
modo di constatare tutti gli elementi della sua poetica. Anche l’essere
logorroico: il film supera la durata di due ore e mezzo per una storia che
poteva essere raccontata in novanta minuti scarsi.
Capitolo 1: Cosa non è. Ora, è un po’ una situazione imbarazzante quella di dover dire che Django non è né un western né uno spaghetti western. Non è nemmeno un omaggio, a parte forse il nome, allo Django originale. Quindi i vari nostalgici che pensavano Tarantino si sarebbe preso la briga di riportare in auge il genere, sono avvisati.
Ma guardiamo in faccia la realtà: è una blaxploitation. Un film con tanti neri sui neri che trattano di storie di neri. È come se avesse voluto continuare Jackie Brown ambientandolo in un deserto nell’800, infarcendolo di una fotografia migliore e puntando ad ampliare la scena con sketch divertenti e molti personaggi surreali.
Ma guardiamo in faccia la realtà: è una blaxploitation. Un film con tanti neri sui neri che trattano di storie di neri. È come se avesse voluto continuare Jackie Brown ambientandolo in un deserto nell’800, infarcendolo di una fotografia migliore e puntando ad ampliare la scena con sketch divertenti e molti personaggi surreali.
Capitolo 4: Perplessità.
La sceneggiatura
è bella ma al tempo stesso la più lineare della produzione tarantiniana. Ed è
questo il nero del film. Perché se da una parte Mr. Orange si diverte a
reinventarsi e cambiare genere, dall’altra si affida ad una regia studiata, ad
un fotografia sublime e alla bravura degli attori e non colpisce più. Anzi,
sembra che a volte si lasci prendere la mano e dia troppo spazio al personaggio
fuori le righe che si è costruito.
Epilogo.
Ed ecco qui che
torniamo al prologo.
Il suo cinema è un plagio ben riuscito, ben diretto e ben orchestrato.
Ma come per ogni plagio c’è sempre il rischio che possa andare qualcosa storto mostrandosi per quel che è: un’accozzaglia.
Il suo cinema è un plagio ben riuscito, ben diretto e ben orchestrato.
Ma come per ogni plagio c’è sempre il rischio che possa andare qualcosa storto mostrandosi per quel che è: un’accozzaglia.
Molto
figa e “Hip Hop”, in questo caso.
Cose belle:
- Spruzzo di sangue su una piantagione di cotone;
- Scena demenziale sul KKK;
- Scenette con sottofondo rap;
- Faccine da gay di Leonardo Di Caprio;
- Maschere masochiste sugli schiavi del Mississippi;
- Interpretazione di Waltz;
- Oscar onorario a Samuel L. Jackson.
Consigli:
Oltre recuperare tutti i suoi film, consiglio vivamente di vedere True Romance (Una Vita al Massimo), sua prima sceneggiatura per un film diretto dal "pace all'anima sua" Tony Scott.
E se volete vedere George Clooney nella sua migliore versione "da cazzone", sparatevi Dal Tramanto all'Alba di Rodriguez. Tarantino oltre ad aver curato anche questa volta la sceneggiatura, interpreta un serial killer.
Insomma, non ha tutti i torti quando dice "Se non fossi diventato regista, sarei stato sicuramente un Serial Killer".
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